Che si tratti di un taglio dell’Opec o del collasso - produttivo e non solo finanziario - dello shale oil, il mercato avrebbe davvero bisogno di una notizia capace di invertire le sorti del petrolio. Le quotazioni hanno già subito un crollo di circa due terzi rispetto all’estate del 2014 e la discesa non solo non è finita, ma minaccia di accelerare ulteriormente, magari fino a portare davvero il barile sotto 20 dollari, come alcuni analisti assicurano che accadrà.
Doveva essere un bene, almeno per i consumatori. In parte lo è stato: persino in Italia il prezzo della benzina è calato, anche se troppo poco per colpa di tasse e accise. Ma i vantaggi per l’economia globale non si sono ancora manifestati con evidenza. In compenso i danni sono vistosi, dalle difficoltà di tanti Paesi emergenti al crollo degli investimenti, fino al collasso delle borse, in gran parte legato ai titoli energetici e minerari (oltre che alle banche). Anche il presidente della Fed, Janet Yellen, ha evidenziato che il calo del petrolio finora sta facendo più male che bene alle sorti del mondo. Il problema è che un taglio di produzione dell’Opec è davvero improbabile, al di là delle voci che si rincorrono con sempre maggiore frequenza e che vengono accolte a braccia aperte da un mercato assetato di notizie rialziste.
L’Iran, che è appena stato liberato dalle sanzioni internazionali, proprio ieri ha abbassato i prezzi di listino del suo greggio nel Mediterraneo, portandolo al di sotto dei prezzi sauditi: una mossa che non sembra certo preludere alla volontà di chiudere i rubinetti. Anche l’Arabia Saudita e l’Iraq stanno continuando ad aumentare la produzione. E lo stesso fa la Russia, uno dei maggiori concorrenti dell’Opec, insieme agli Stati Uniti, benché Mosca abbia ripetuto più volte nelle ultime settimane di essere pronta a «collaborare a tagli». Tutti sono pronti a collaborare. Ma in realtà nessuno si muove se non si muovono gli altri. Così lo stallo continua. Almeno finché non ci sarà una vera capitolazione da parte dei produttori che operano secondo le leggi del mercato e non quelle della politica. Succederà, prima o poi.
Le società dello shale oil americano sono quasi tutte sull’orlo della bancarotta, senza più un centesimo da spendere per trivellare nuovi pozzi, che sostituiscano gli attuali (destinati a esaurirsi molto più in fretta dei giacimenti convenzionali). Le compagnie tradizionali vedranno esse stesse crollare la produzione, dopo aver cancellato investimenti per circa 400 miliardi di dollari. In molti casi inoltre è probabile che abbiano tirato la cinghia anche sulle spese di manutenzione dei giacimenti, rischiando di compromettere il ritmo di produzione futuro. Quando le leggi di mercato finiranno con l’imporsi, tuttavia, il conto dei danni potrebbe rivelarsi salato.
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