Il 1° gennaio scorso le banche europee e gli investitori nei loro titoli, azioni e obbligazioni, e persino i correntisti, sono entrati in un mondo nuovo, creato dalla direttiva europea cosiddetta Brrd. Non ci si è arrivati d’improvviso, né per caso, ma dietro una precisa pressione politica.
Dopo che negli anni precedenti si erano spesi 1.600 miliardi di euro di denaro pubblico per i salvataggi bancari, in tutti i Paesi europei l'opinione pubblica si è rivoltata contro quest'uso dei soldi dei contribuenti. I l risultato è stato il nuovo regime, detto del bail-in, in cui a essere coinvolti nel salvataggio delle banche erano anzi tutto quelli che sulle banche avevano investito, nell'ordine dagli azionisti, ai possessori di obbligazioni subordinate, a quelli di debito senior, ai grandi correntisti. Il nuovo mondo è molto più ordinato di quello vecchio, fatto di interventi ad hoc, spesso in extremis, tardivi. Per qualcuno, è quasi un Paese delle meraviglie.
La settimana scorsa, alla Bundesbank, abbiamo sentito il governatore della Banca centrale olandese, Klaas Knot, magnificare il fatto che con il bail-in “siamo sicuri che chi si è preso il rischio (di puntare sulle banche ndr) ne sopporti le conseguenze se qualcosa va storto. Niente più socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti”. Gli ha fatto eco l'amministratore della Commerzbank, Martin Blessing: “Finalmente sono ristabilite le regole del capitalismo”. Fa un po' specie che l'elogio di questo nirvana capitalistico venga dal governatore della banca centrale di un Paese che nella crisi non ha avuto problemi a nazionalizzare il principale istituto di credito, e dal capo di una banca che ha goduto non di uno, ma di due salvataggi con soldi pubblici, ed è tuttora controllata al 15% dal Governo, il quale non sa come disfarsene senza perdere un bel po' di denari. Per entrambi, rifarsi una verginità a parole è un esercizio facile. Anche se la lunga gestazione della direttiva Brrd rende improbabile che sia questa l'unica ragione dello sconquasso sui titoli bancari di queste prime settimane dell'anno, senz'altro il risveglio è stato brusco, favorito dalle vicende delle banche italiane e di quelle portoghesi, entrambe gestite in modo maldestro, e dall'irruzione sulla scena, anche questa non del tutto imprevista, ma rumorosa, di un elefante come Deutsche Bank.
Altri fattori, come l'effetto collaterale sulla redditività bancaria di una lunga stagione di tassi negativi (vera e propria “tassa” sulla liquidità), hanno giocato un ruolo, soprattutto ora che si prevede che saranno più bassi e più a lungo. “I mercati si stanno adeguando alle nuove regole”, ha commentato in modo asciutto, e con una buona dose di understatement, il ministro delle Finanze olandese e presidente dell'Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. Un adeguamento che rischia di costare molto caro, non solo agli investitori. Molti degli sviluppi di questi giorni sono probabilmente una “esagerazione dei mercati”, come ha detto ieri il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, ma il pericolo che la paura si autoalimenti, fino a trasformarsi in panico, esiste. Ma essa si alimenta anche di incertezza e finora non ha contribuito a dissiparla il silenzio del nuovo custode del sistema bancario dell'eurozona, la Banca centrale europea, alla quale il vestito della trasparenza sta ancora molto stretto. L'opacità di molte delle sue decisioni, non ultima per esempio quella sullo Srep, le più recenti richieste di capitale, non aiuta né le banche, né gli investitori, né, in ultima analisi, l'eurozona.
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