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Prezzi a picco e montagne di debiti: negli Usa l’agricoltura …

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Prezzi a picco e montagne di debiti: negli Usa l’agricoltura soffre (quasi) come lo shale oil

Sono concentrati soprattutto nel Midwest degli Stati Uniti e rischiano di finire in bancarotta, perché le materie prime che producono sono crollate di prezzo, a causa di una domanda più debole e di scorte da primato, al punto che in molti casi devono ormai sopportare costi superiori agli incassi.

No, stavolta non stiamo parlando dello shale oil, ma dell’agricoltura americana, anch’essa precipitata in una crisi profonda. La sofferenza, beninteso, non è forte come quella dei petrolieri. Ma le imprese agricole, piccole e grandi, dopo almeno cinque anni di grande benessere si trovano oggi a fronteggiare difficoltà sempre più gravi: nel 2015, secondo le stime del dipartimento dell’Agricoltura (Usda), il settore ha generato profitti netti per 55,9 miliardi di dollari, i più bassi da 13 anni e meno della metà rispetto al record di 123,3 miliardi nel 2013. Il debito è 6,6 volte i profitti, un livello che non si raggiungeva dal 1984 (la leva, altra analogia con lo shale oil, era comunque già alta nel 2014, con un ratio di 3,8).

In parte i problemi dei frackers e dei contadini si intrecciano. Il boom delle materie prime è finito per entrambi e per entrambi il rallentamento della Cina, che non importa più come un tempo, ha contribuito a far crollare i prezzi: quelli di mais e soia sono più che dimezzati rispetto ai livelli record del 2012 e il grano è sceso di recente ai minimi da 5 anni.

Un importante fattore rialzista per le quotazioni del mais, inoltre, è venuto meno proprio a causa del crollo del petrolio: la domanda e i margini di distillazione dell’etanolo sono diminuiti. Infine c’è il problema del dollaro, che è particolarmente sentito dagli agricoltori Usa: il rafforzamento del biglietto verde negli ultimi mesi non solo ha pesato sui prezzi di tutte le commodities quotate in dollari, accentuando la tendenza ribassista, ma ha fortemente penalizzato l’export americano, divenuto poco competitivo rispetto ad altri grandi produttori agricoli, la cui valuta è viceversa crollata. Tra questi ci sono il Brasile, l’Argentina, la Russia, l’Ucraina e, in misura minore, anche l’Unione europea.

Tutti i concorrenti degli Usa sono stati agevolati anche da raccolti abbondanti: nella stagione in corso, nonostante consumi robusti, le scorte mondiali di cereali e semi oleosi ammontano a 455 milioni di tonnellate, stima l’International Grain Council, un record da 29 anni. Inoltre i costi di trasporto sono crollati, grazie alla discesa del petrolio ai minimi da 13 anni, sotto 30 dollari al barile, e al contemporaneo tracollo dei noli per i carichi secchi, che ha portato il Baltic Dry Index ai minimi storici.

Le rotte commerciali, soprattutto per il grano, sono state completamente rivoluzionate, favorendo in particolar modo la Russia, che sta inviando carichi nei più remoti angoli del mondo, compreso il Messico e la Nigeria. Proprio grazie al grano - di cui secondo l’Usda dovrebbe esportare 23,5 milioni di tonnellate, superando Usa e Canada - Mosca è avviata quest’anno a diventare il maggiore esportatore mondiale di cereali.

L’export americano di grano viceversa dovrebbe crollare ai minimi da 44 anni, appena 21,5milioni di tonnellate (-9,3%). Per il mais l’Usda si attende un calo dell’11,5% a 41,9 milioni di tonnellate e per i semi di soia dell8,3% a46 milioni.

I coltivatori a stelle e strisce sono così scoraggiati che molto spesso rinunciano a vendere, preferendo accumulare i loro prodotti nei silos in attesa di tempi migliori. Da qualche settimana si osservano tuttavia i primi segnali di cedimento: sotto pressione per la necessità di acquistare sementi e fertilizzanti per la prossima stagione, qualche produttore avrebbe ceduto cereali sotto costo pur di fare cassa.

La situazione è così grave che sta danneggiando persino i giganti dell’agribusiness. Giovedì il ceo di Bunge, Soren Schroder, ha detto che il crollo di esportazioni e margini di lavorazione negli Usa «rappresenta una grande sfida per i prossimi due trimestri». La società, grazie a operazioni importanti in America Latina, ha difeso i profitti, che però nel quarto trimestre 2015 sono stati inferiori al previsto (118 milioni di dollari) e la Borsa l’ha puntia con un tonfo del 14%, ai minimi dal 2010. Nelle scorse settimane anche Cargill e Archer Daniels Midland avevano puntato il dito sugli stessi problemi per giustificare un calo degli utili.

Per le aziende agricole americane, soprattutto quelle di dimensioni medio-piccole, va decisamente peggio. Le banche sono diventate sempre più restie a concedere prestiti e le procedure di protezione dalla bancarotta sono talvolta di difficile accesso: il Chapter 12, iter semplificato e meno costoso del Chapter 11, riservato alle aziende agricole a gestione familiare, può essere utilizzato solo se i debiti non superano 4 milioni di dollari. Una cifra che sembra elevata. Ma negli Usa del denaro facile e dei tassi di interesse a zero molti agricoltori sono andati ben oltre.

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