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Non è chiaro chi davvero proporrà i tagli

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L'ANALISI

Non è chiaro chi davvero proporrà i tagli

«Ditemi, chi dovrebbe tagliare la produzione? L'Arabia Saudita? L'Iran? Lo farà il Messico? Il Brasile? Chi taglierà la produzione?». L'ironico commento espresso sei giorni fa da Igor Sechin, presidente della major energetica russa Rosneft, riflette con efficacia il periodo di confusione che stanno vivendo i Paesi esportatori di greggio. La quasi totalità di loro, che facciano parte o meno dell'Opec, sono da tempo consapevoli che l'eccesso di offerta nel mondo, valutato a due milioni di barili al giorno (mbg), è stato la causa della caduta delle quotazioni. Crollate dai 115 dollari al barile del giugno 2014 a meno di 30.


A parole sembrano tutti d'accordo; occorre fare qualcosa. E presto. Nei fatti, tuttavia, nessuno sembra disponibile ad iniziare per primo. La decisione presa ieri in un incontro informale tra il potente ministro saudita del petrolio, Ali al-Naimi, e il suo omologo russo, Alexander Novak, a cui hanno partecipato anche il ministro venezuelano dell'Energia e quello del Qatar, è in realtà una non decisione. Annunciare al mondo di voler congelare la produzione ai livelli – altissimi – toccati lo scorso gennaio, sperando che i prezzi non cadano ancora, si è rivelata una mossa controproducente. Lo dicono chiaramente i mercati internazionali. Se in principio, quando si sperava in un taglio produttivo, il greggio Wti è salito di circa il 6%, in serata ha ceduto oltre il 3 per cento.

Se fosse stato deciso un consistente taglio - la sola via percorribile nel tentativo di risollevare i prezzi - si sarebbe posto comunque il problema evidenziato da Sechin. Per molti paesi esportatori di greggio la situazione è drammatica. Se in diversi sono alle prese con disastrosi deficit dei rispettivi budget , altri, come Russia e soprattutto Venezuela, sono sprofondati nella recessione.
Nessuno sembra dunque disponibile a tagliare la produzione. La disciplina, poi, non è certo il punto di forza dei 13 paesi membri dell'Opec. E nessuno intende ridurre la sua quota di mercato a vantaggio di altri. Congelare equivale a cambiare tutto per non cambiare niente. Innanzitutto perché la produzione Opec ha toccato nel 2015 , il massimo da 10 anni. E secondo il rapporto mensile diffuso dal Cartello, in gennaio, il livello a cui fa riferimento l'accordo di ieri , la produzione Opec è stata di 32,335 mbg, appena sotto il massimo storico di 32,426 mbg toccato due mesi prima.

Quanto alla Russia in gennaio ha prodotto 10,99 mbg, un record nel periodo post-sovietico. L'Arabia ha invece estratto 9,95 mbg, un volume considerevole. Il Venezuela, pur sotto il suo tetto produttivo, non sembra in grado di aggiungere una goccia. Al di là dei sauditi, che sono in grado di produrre ancora parecchio greggio, in questo periodo la Russia ed altri Paesi Opec non sarebbero in grado di estrarre altro petrolio. L'eccesso produttivo non verrà dunque scalfito. Anzi. Se l'Iran sarà davvero capace di riversare sui mercati un milione di barili al giorno in un anno, la situazione rischia di peggiorare. Anche perché l'Iraq, alle prese con una costosissima guerra contro l'Isis, ha un bisogno disperato di liquidità. E se fonti irachene hanno riferito la disponibilità di Baghdad ad adeguarsi al congelamento, va anche precisato che l'Iraq sta producendo a livelli record; 4,4 mbg. E se potrà aumentare la produzione è difficile che decida di non farlo. Senza Iran e Iraq l'accordo di ieri appare ancor più debole. Il ministro saudita ha aggiunto che il congelamento è «l'inizio di un processo» che potrebbe richiedere «ulteriori passi per stabilizzare e migliorare i mercati». Ma quale siano le prossime iniziative non è dato sapere.

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