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L’export di gas americano al via in piena crisi del Gnl

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rivoluzione shale

L’export di gas americano al via in piena crisi del Gnl

Il viaggio inaugurale era previsto per gennaio, poi è slittato per problemi tecnici. Ma adesso tutto è pronto per il debutto degli Stati Uniti come esportatori di gas.Cheniere Energy, che ha battuto in velocità tutti i concorrenti, ha messo in moto gli impianti di Sabine Pass, in Louisiana, ed è pronta a spedire all’estero il suo primo carico di Gas naturale liquefatto (Gnl). La nave metaniera, secondo indiscrezioni raccolte dal Wall Street Journal, potrebbe salpare già la settimana prossima, diretta molto probabilmente in America Latina. Ma la festa, prima ancora di cominciare, sembra già rovinata.

Le aspirazioni delle compagnie americane, che sull’onda del successo dello shale gas avevano fatto grandi progetti di espansione, si scontrano con una situazione difficilissima sul mercato. Il prezzo del petrolio è crollato di due terzi rispetto al periodo in cui gli impianti di liquefazione erano stati progettati e ha trascinato con sè in ribasso anche quello del gas. Inoltre la domanda si è fortemente indebolita, soprattutto in Asia, quello che doveva essere il mercato più appetibile per il Gnl «made in Usa».

Le importazioni cinesi l’anno scorso per la prima volta nella storia sono diminuite, invece di crescere, quelle del Giappone - il maggior acquirente mondiale di Gnl - sono calate per la prima volta dal 2009. In gennaio, con la riattivazione di un terzo reattore nucleare, Tokyo ha tagliato ulteriormente l’import, riducendolo del 14,1% a 7,2 miloni di tonnellate. Sul mercato spot asiatico il prezzo del Gnl - che nel 2011, dopo il disastro di Fukushima era salito fino a 20 $/MMBtu - nel 2015 è stato in media di 7,45 $ e ora è sceso addirittura sotto 6 $, un livello che fatica a ripagare le esportazioni americane, nonostante il prezzo del gas sia crollato anche sul mercato interno.

Le prospettive di ripresa per il futuro non sono legate solo al petrolio. Nel settore del Gnl c’è infatti anche un enorme problema di concorrenza. Traditi da scenari troppo ottimisti sui consumi (e con le casse ben rifornite dopo anni di rally del petrolio) molti altri produttori si sono mossi insieme agli americani, in particolare in Australia, dove sono stati investiti oltre 200 miliardi di dollari per sviluppare enormi progetti. Il risultato è che a livello globale la produzione del combustibile, già salita al record di 250 milioni di tonnellate nel 2015, potrebbe aumentare di altri 121 milioni di tonnellate nel giro di 5 anni. Almeno stando alle ultime stime di Wood Mackenzie, che potrebbero comunque essere riviste al ribasso date le difficoltà del settore.

Molti progetti sono in fase troppo avanzata di costruzione e non possono essere fermati. Ma è probabile che altri vengano rinviati a tempi migliori. L’australiana Woodside Petroleum, ad esempio, difficilmente darà via libera entro il 2016, come aveva previsto, a Browse Lng, che vede tra i soci anche Royal Dutch Shell. Il ceo Peter Coleman, a margine della presentazione del bilancio 2015 (con utili crollati del 99% a 26 milioni di dollari) ha dichiarato che fatica a trovare clienti che sottoscrivano contratti di fornitura: in Asia, riferisce Coleman, oggi le utilities stanno operando «in modo opportunistico, solo a breve termine, non firmano nuovi contratti di lunga durata o comunque ne firmano pochissimi».

Per Sabine Pass Cheniere è riuscita a mettere al sicuro almeno una parte dei profitti, grazie ai contratti di fornitura ventennali siglati tempo fa con diversi clienti, tra cui Bg Group (ora acquisita da Shell) e Total, che prevedono clausole di “take or pay”, ossia impongono di pagare una certa quantità di Gnl anche se poi non lo si prende in consegna.

Della ventina di progetti per esportare Gnl dagli Stati Uniti probabilmente solo 5-6 vedranno davvero la luce, prevede Daniel Yergin, vicepresidente di Ihs, perché al momento non riescono a finanziarsi, né attraverso la “prevendita” delle forniture, né attraverso i mercati del credito, ormai diventati quasi inaccessibili per le società energetiche. Benché pochi, gli impianti in costruzione rischiano comunque di non riuscire ad operare a pieno ritmo: a fronte di una capacità di 10,6 miliardi di piedi cubi al giorno nei prossimi 8 anni ci sarà domanda solo per 6,5 miliardi, prevede un’analisi della banca canadese Cibc.

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