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L’Iraq: possibile vertice Opec a marzo. Ma il rally del…

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L’Iraq: possibile vertice Opec a marzo. Ma il rally del petrolio si spegne

È toccato all’Iraq rinfocolare le attese di un’azione a sostegno dei prezzi del petrolio: è possibile che un vertice di emergenza dell’Opec sia convocato il prossimo mese, ha fatto sapere Baghadad, naturalmente «se ci sarà un accordo tra tutte le parti».

Le dichiarazioni, rilasciate al Wall Street Journal dal portavoce del ministero del Petrolio Asim Jihad, hanno fatto seguito a un comunicato dello stesso ministro Adel Abdul Mahdi, che afferma che le trattative sul piano di congelamento della produzione stanno proseguendo. Anche Abdul Mahdi, come il collega iraniano Bijan Zanganeh, che aveva incontrato il giorno prima, non ha esplicitamente detto se il suo Paese aderirà all’intesa di Doha, che - fatta salva la partecipazione di altri produttori - ha impegnato Arabia Saudita, Russia, Venezuela e Qatar a mantenere l’estrazione di greggio sui livelli di gennaio. Il Kuwait, gli Emirati arabi uniti e, al di fuori dell’Opec, l’Oman hanno dato la loro disponibilità.

Tanto per sgombrare il campo dagli equivoci, il ministro degli Esteri saudita Adel al-Jubeir ha però chiarito che Riyadh in ogni caso «non è pronta a ridurre la sua produzione», ma soltanto a congelarla. «Difenderemo la nostra quota di mercato, come abbiamo già detto», ha aggiunto al-Jubeir parlando con l’agenzia France Presse. Eventuali azioni per limitare o congelare la produzione «possono avere un impatto», ma i prezzi del petrolio saranno comunque «determinati dall’offerta e dalla domanda, dalle forze del mercato».

Il balletto diplomatico avviato dall’Opec ha avuto un effetto straordinario sul mercato, sollevando le quotazioni del greggio di quasi il 15% questa settimana: se i guadagni non verranno meno, calcola Bloomberg, l’Arabia Saudita riuscirà ad incassare quasi un miliardo di dollari in più dall’export di petrolio il prossimo mese. Il tutto senza aver fatto nient’altro che parlare.

I rialzi sono proseguiti anche ieri per buona parte della seduta, sebbene alla fine la chiusura sia risultata mista: il Brent ha chiuso a 34,28 $/barile (-0,6%)), il Wti a 30,77 $ (+0,4%). A frenare il rally è stato il nuovo aumento delle scorte petrolifere negli Usa: quelle di greggio, complice una ripresa delle importazioni, sono salite di 2,1 milioni di barili, quelle di benzine di 3 mb, aggiornando entrambe il record storico (rispettivamente a 504,1 e 258,7 mb). Nuovo record anche per Cushing, il punto di consegna del Wti, già vicino al limite massimo di capienza dei serbatoi: le scorte sono arrivate a 64,7 mb (+36mila barili). Sono inoltre aumentati a sorpresa anche gli stock di distillati (+1,4 mb), nonostante un’accelerazione delle raffinerie, che hanno utilizzato l’88,3% della capacità (+2,2%).

Almeno la produzione di greggio sta cominciando a calare negli Stati Uniti. Nel North Dakota, dove ha avuto inizio la rivoluzione dello shale oil, i dati definitivi forniti dalle autorità locali certificano una diminuzione del 3% tra novembre e dicembre, 1,15 milioni di barili al giorno. Si tratta del maggior calo mensile da gennaio 2015 (quando però era legato soprattutto a fattori climatici) e di uno dei più marcati in tutta la storia dello shale oil.

Le incognite sono legate piuttosto al petrolio convenzionale: il governo Usa stima che «anche se i prezzi del petrolio resteranno bassi» la produzione nel Golfo del Messico aumenterà fino al record di 1,91 mbg nel dicembre 2017, da 1,63 mbg in media quest’anno. Nel 2015 sono infatti entrati in attività ben 8 nuovi progetti estrattivi nell’area e altri 6 inizieranno a produrre entro l’anno prossimo.

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