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Shale oil alla stretta finale, tra chi smette di trivellare e chi fallisce

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Shale oil alla stretta finale, tra chi smette di trivellare e chi fallisce

«Abbassare i costi, prendere denaro a prestito oppure fallire». Nella cinica sintesi di Ali Al Naimi, ministro del Petrolio saudita, lo shale oil americano ha di fronte solo tre strade per reagire al crollo del barile. Le prime due sono state percorse a lungo e oggi cominciano a vedersi casi limite - come società che rinunciano del tutto a trivellare per risparmiare denaro - mentre la via della bancarotta di giorno in giorno si fa sempre più trafficata: dall’inizio del 2015 hanno fatto ricorso al Chapter 11 ben 48 società del settore e molte altre potrebbero seguire fin dal prossimo mese. C’è infatti un altissimo rischio di insolvenza su 1,2 miliardi di dollari di interessi che i frackers dovrebbero pagare in marzo su obbligazioni «spazzatura».

Per il mercato sta diventando impossibile ignorare i segnali che arrivano dagli Stati Uniti, dove la capitolazione - per quanto temporanea - dello shale potrebbe essere vicina. Quando la svolta si tradurrà in un forte calo di produzione (ormai sembra solo questione di tempo) è probabile che anche le quotazioni del petrolio riusciranno a risollevarsi.

Già da qualche settimana il mercato sembra cercare lo spunto per un recupero: dopo essere scivolato ai minimi da 13 anni in gennaio, il barile è entrato in una fase di forte volatilità, con rialzi o ribassi superiori al 5% in molte sedute, ma sempre oscillando in una banda compresa grosso modo tra 30 e 35 dollari. Dopo molti alti e bassi, ieri il greggio ha chiuso in rialzo, con il Brent a 35,29 dollari (+2,6%) e il Wti a 33,07 $ (+2,9%). Le scorte petrolifere, a livelli da primato, preoccupano. Ma dal fronte dello shale oil arrivano inequivocabili segni di frenata.

In un estremo sforzo di sopravvivenza Whiting Petroleum, il maggior produttore del North Dakota, culla dello shale americano, ha annunciato che sospenderà tutte le trivellazioni in questo e in altri Stati: per risparmiare ogni singolo dollaro di liquidità si limiterà a spendere lo stretto necessario per chiudere i pozzi, mettendoli in sicurezza, e fare le manutenzioni necessarie per rimetterli in funzione in fretta quando il prezzo del petrolio risalirà. Nelle stesse ore anche Continental Resources ha comunicato che fermerà il fracking in North Dakota, dove nei giorni scorsi le autorità locali hanno espresso preoccupazione per il gran numero di impianti che sono finiti in mano ai creditori:banche o fondi privi delle competenze per operare in sicurezza.

Intanto è cominciato il conto alla rovescia per una nuova ondata di default tra i produttori nordamericani. Chesapeake Energy, il maggior produttore di shale gas dopo ExxonMobil, per il momento sembra averla scampata: riuscirà a pagare una cedola da 500 milioni di dollari in marzo, ma solo perché ha venduto asset per 700 milioni, più del doppio di quanto avesse sperato.

Sandridge Energy e Energy XXI invece hanno già mancato una scadenza di pagamento e sono ora nel periodo di grazia: a metà marzo è probabile che entrambe faranno default, su obbligazioni per complessivi 7,6 miliardi di dollari. Sandridge ha ammesso di aver esaurito le linee di credito revolving:  un segnale di gravi difficoltà, che è arrivato anche da altri produttori, tra cui Linn Energy (altra candidata alla bancarotta, con il valore delle azioni ormai quasi azzerato) e Chaparral Energy, che dovrebbe pagare una cedola di 17 milioni il prossimo mese.

Marzo non sarà l’unico periodo di punta sui mercati americani del debito high yield, prima fonte di finanziamento dei frackers, dove i rendimenti delle società energetiche hanno da poco superato per la prima volta nella storia il 20 per cento. Il calendario di pagamenti del settore è molto fitto, con 9,8 miliardi di dollari di cedole da pagare entro fine anno. In un terzo dei casi, stima Moody’s, c’è un alto rischio di insolvenza.

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