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inchiesta a milano per frode fiscale

Credit Suisse AG indagata a Milano: nel mirino 14 miliardi finiti all’estero con finte polizze vita

Reuters
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Un'indagine senza precedenti, il colosso bancario svizzero Credit Suisse indagato per riciclaggio, 13mila presunti evasori fiscali italiani finiti in una lista al vaglio della Guardia di Finanza e - soprattutto - 14 miliardi di euro portati all'estero anche grazie a finte polizze assicurative. Sono gli ingredienti della maxi-inchiesta per frode fiscale che la procura di Milano ha avviato più di un anno fa e che vive adesso un salto di qualità: i pm milanesi hanno iscritto nel registro degli indagati la casa madre svizzera Credit Suisse Ag e si preparano a chiudere le indagini.

È la prima volta che un grande gruppo bancario viene messo direttamente sotto accusa in Italia. L'istituto elvetico è indagato sulla base del decreto legislativo 231 sulla responsabilità amministrativa delle imprese, che prevede anche il reato di riciclaggio. Secondo indiscrezioni raccolte dal Sole 24 Ore, nel registro degli indagati sarebbero iscritti anche esponenti apicali del colosso bancario di Zurigo.
L'indagine è coordinata dal procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco ed è portata avanti dai pm Antonio Pastore e Gaetano Ruta, che ipotizzano a vario titolo i reati di frode fiscale, riciclaggio, ostacolo all'attività di vigilanza e abusivismo finanziario. L'enorme quantità di file e di documenti sequestrati nella perquisizione della sede italiana del Credit Suisse a Milano, avvenuta alla fine del 2014, è ancora sotto la lente degli uomini del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Milano guidati dal colonnello Vito Giordano. Un contributo determinante è arrivato inoltre dal lavoro di analisi svolto da Nicola Mainieri e da Marco Pacini del Nucleo per la consulenza all'autorità giudiziaria della Banca d'Italia.

La voluntary disclosure
Con 1.260 miliardi di euro di attivi, il Credit Suisse è (secondo i dati di Mediobanca) uno dei primi 20 istituti di credito del mondo. Ecco il motivo del numero così elevato di clienti italiani finiti nella lista al centro dell'inchiesta. Le indagini hanno potuto accertare che circa la metà dei 13mila italiani coinvolti ha aderito alla voluntary disclosure mettendosi in regola almeno dal punto di vista fiscale: l'esistenza dell'inchiesta dei magistrati milanesi è infatti nota da più di un anno e i correntisti hanno avuto tutto il tempo di valutare l'opportunità di sanare la loro posizione. Per l'altra metà dei clienti del Credit Suisse che ha deciso di non aderire alla regolarizzazione voluta dal governo scatteranno le sanzioni dell'Agenzia delle Entrate oltre al peso dell'indagine penale.

Le finte polizza vita
Gli investigatori della Guardia di Finanza e della Banca d'Italia hanno scoperto che buona parte dei 14 miliardi depositati all'estero sono stati dirottati in polizze vita definite dagli investigatori “ di copertura”. Si tratterebbe di circa 8 miliardi di euro investiti da quattromila italiani in polizze unit linked del Credit Suisse Life & Pension Aktiengesellschaft (Cslp). Il meccanismo utilizzato era semplice e collaudato. I gestori del Credit Suisse facevano sottoscrivere ai clienti italiani le polizze che venivano vendute attraverso due società domiciliate in Liechtenstein e alle Bermuda. Le due società poi - secondo le risultanze delle indagini - retrocedevano tutte le somme al Credit Suisse ed era la banca svizzera a occuparsi della gestione totale dei fondi.
Analizzando le migliaia di email rintracciate nei server del Credit Suisse, gli investigatori hanno ipotizzato che le polizze sarebbero state un sistema per far rientrare soldi non dichiarati dall'estero. Insomma, finti strumenti finanziari.
Le polizze vita, infatti, prevedono una serie di condizioni che il cliente deve sottoscrivere, come per esempio l'impossibilità di recedere dal contratto (e riottenere così la disponibilità dei fondi) per un certo periodo di tempo e l'impossibilità di decidere in che modo investire la somma vincolata nella polizza. Ma nel caso del Credit Suisse queste condizioni non sarebbero state rispettate, almeno secondo quanto sarebbe emerso dal materiale sequestrato. I clienti potevano interrompere la polizza senza pagare commissioni o con commissioni da prefisso telefonico, circa quattro volte più basse della media del mercato.
Interrompere una polizza ha generalmente costi molto elevati perché i soldi vengono investiti sui mercati azionari e il loro smobilizzo improvviso ha degli oneri molto alti. Ma in questo caso i fondi sarebbero rimasti, di fatto, nella disponibilità dei clienti della banca, secondo quanto ipotizzano gli inquirenti. Le cifre immobilizzate dai singoli clienti nelle unit linked erano di solito superiori ai 5 milioni di euro. Un'altra anomalia che sarebbe emersa dalle indagini è che non erano previste riserve in caso di morte. Ai sottoscrittori, inoltre, venivano concessi anche degli degli anticipi su pegni. Questi elementi hanno fatto accendere più di un campanello d'allarme nei magistrati. Le indagini dimostreranno se è davvero così.

La falla nel Testo unico delle finanze
C'è un particolare che avrebbe reso possibile la presunta maxi-truffa fiscale attraverso le polizze unit linked. Il Testo unico delle Finanze del 1998 non regolamenterebbe in modo sufficientemente dettagliato questi particolari strumenti finanziari. Ed è proprio sfruttando questo buco normativo che sarebbe stato possibile eludere una attenta sorveglianza sulle polizze sottoscritte dai clienti del Credit Suisse attraverso le società alle Bermuda e in Liechtenstein.

Il decalogo anti-indagini
Un altro aspetto curioso emerso dalle indagini riguarda una sorta di manuale in 20 punti ritrovato nel materiale sequestrato. Il documento elenca gli accorgimenti che i gestori della banca dovevano osservare per evitare di destare i sospetti delle autorità fiscali e giudiziarie quando incontravano i clienti. Il “decalogo” consigliava ai banchieri di non dormire nello stesso hotel per più giorni, di non portare con sé tablet e personal computer, di azzerare la rubrica del cellulare e di andare all'estero facendo finta di partecipare a eventi culturali, sportivi o turistici. Regole efficaci per mimetizzarsi e non rivelare la loro attività.

Credit Suisse, in una dichiarazione di un portavoce, si limita ad affermare che le sue «attività con clienti privati sono sistematicamente concentrate su patrimoni dichiarati» aggiungendo che il gruppo ha «chiare regole interne e processi per assicurare che si conduca il lavoro in accordo alle leggi in vigore in Italia. In relazione alla “voluntary disclosure” approvata dal governo italiano nel 2014, Credit Suisse ha immediatamente chiesto ai propri clienti di fornire prove per dimostrare di essere in regola dal punto di vista fiscale. Questo processo è stato virtualmente concluso».

Non è la prima volta che il Credit Suisse incappa in indagini fiscali. Tra il 2008 e il 2012 le autorità giudiziarie in Germania, Brasile e Stati Uniti avevano indagato sull'uso di conti correnti per favorire l'evasione fiscale. Nel maggio 2014 il gruppo bancario elvetico aveva ammesso le sue responsabilità nel ruolo avuto per nascondere al fisco americano i patrimoni di cittadini statunitensi e aveva pagato multe per 2,6 miliardi di dollari. Ora tocca all'Italia.

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