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Petrolio, Stati Uniti più lontani dal sogno dell’indipendenza…

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Petrolio, Stati Uniti più lontani dal sogno dell’indipendenza dall’estero

Gli Stati Uniti sono tornati ad importare petrolio ai ritmi del 2013 e ne esportano meno dell’anno scorso, quando le vendite all’estero non erano ancora state liberalizzato. Una situazione paradossale, che contribuisce a mantenere sotto pressione il prezzo del barile. Le scorte Usa, da tempo a livelli record, continuano infatti ad aumentare, nonostante la produzione di shale oil sia finalmente in calo.

La settimana scorsa, secondo le statistiche Eia, c’è stato un nuovo accumulo di ben 9,4 milioni di barili di greggio, ben oltre le previsioni degli analisti. Il dato, insieme al rafforzamento del dollaro, ha pesato su Brent e Wti, che hanno perso oltre il 3%, per chiudere rispettivamente a 40,47 e 39,79 $/barile.

L’ulteriore incremento delle scorte, mai così alte da 80 anni, è in parte legato alle manutenzioni nelle raffinerie. Ma la causa principale è il boom di importazioni, che hanno raggiunto 8,4 milioni di barili al giorno: su base settimanale un record da giugno 2013. Gli Usa hanno aumentato gli acquisti soprattutto dall’Opec: dall’Arabia Saudita sono arrivati 1,4 mbg, dal Venezuela - che ha quasi raddoppiato le forniture - quasi 1,1 mbg. Washington è tornata a importare 560mila bg persino dalla Nigeria, da cui fino a poco tempo fa non comprava più nulla perché i suoi greggi leggeri sono molto simili allo shale oil. Non si tratta di una settimana sui generis: le importazioni americane di greggio - che a giugno 2014 erano crollate a 7,1 mbg, il minimo da vent’anni - nel 2016 hanno superato molto spesso 8 mbg.

Nello stesso tempo, l’export è stato finora un successo soprattutto in termini di immagine. Il primo carico in regime di liberalizzazione è salpato dal Texas verso la Francia il giorno di San Silvestro. Da allora si è avuta notizia di diverse altre partenze, verso i quattro angoli del mondo, compresa la Cina - che ha appena concluso il suo primo acquisto di greggio «made in Usa» - e l’Italia, dove ExxonMobil ha rifornito la raffineria di Augusta. Le cifre settimanali dell’Eia raccontano però che dagli oltre 500mila bg di dicembre, le esportazioni Usa verso metà gennaio sono scese e da allora restano inferiori a 400mila bg. In media, secondo stime di ClipperData, l’export è sceso del 5% nel 2016, a una media di 325mila bg.

Il sogno dell’indipendenza energetica degli Usa ha insomma subito una battuta di arresto: anche il bilancio import-export è peggiorato, con le importazioni nette che a dicembre (secondo l’ultimo dato mensile disponibile) ammontavano a 7,5 mbg, il massimo da due anni. Le cause risiedono soprattutto nelle distorsioni dei prezzi, favorite dal forte eccesso di offerta e dalle inefficienze di alcune infrastrutture. Oggi per un raffinatore Usa può essere più conveniente rifornirsi in Africa, piuttosto che comprare dai produttori locali. Quanto all’export, le vendite al Canada - cliente storico, poiché in parte esentato dai divieti - sono diminuite dopo che Ottawa ha rafforzato la rete interna di oleodotti.

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