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L’euro effettivo e quel rischio «calcolato» di Draghi

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l’analisi

L’euro effettivo e quel rischio «calcolato» di Draghi

Difficile dire se Mario Draghi si attendesse una reazione così stizzita dai mercati quando lo scorso 10 marzo ha avvertito il mondo intero sul fatto che i tassi sui depositi Bce non sarebbero scesi all’infinito. Di sicuro il conseguente balzo dell’euro ha messo a disagio più di un banchiere centrale a Francoforte, prova ne sia che qualche giorno più tardi Peter Praet, capoeconomista e membro del board Bce, si è sentito in dovere di correggere in parte il tiro sul tema.

Ora che anche i toni più aggressivi di alcuni banchieri Fed hanno contribuito a far riprendere colore al dollaro la vicenda può essere riconsiderata a mente un po’ più fredda, per scoprire che probabilmente all’Eurotower i conti se li erano fatti bene. A ben vedere, nonostante il ripiegamento dai massimi post-Fed, l’euro resta infatti poco sopra del livello di 1,11 dollari in base al quale gli economisti Bce basano le proprie proiezioni macro, incluse quelle sull’inflazione.

Quando però i conti si fanno sul tasso effettivo, cioè sul cambio ponderato nei confronti dei 38 principali Paesi con cui scambia l’area euro, le previsioni dello staff Bce sono un po’ più pessimiste della realtà: indicano un apprezzamento del 4,8% nel 2016 quando su scala globale, come chiarisce il Bollettino mensile diffuso giovedì scorso, l’euro è salito di «appena» il 3,7 per cento. Secondo Frederik Ducrozet, economista di Pictet, questa differenza si tradurrebbe in un possibile incremento extra di 5 punti base sulle stime di inflazione dell’Eurozona.

Non sembrerebbe poi molto, ma se si aggiungono anche i 15 centesimi in più che potrebbero arrivare da un recupero del petrolio più marcato delle attese (la Bce stima un prezzo medio del barile di 34,9 dollari per il 2016, mentre il Brent viaggia a quota 40) l’inflazione annua prevista all’1,6% nel 2018 potrebbe avvicinarsi ulteriormente a quel 2% che resta obiettivo unico a Francoforte. E forse si comprende anche perché Draghi si sia potuto permettere di spostare l’attenzione dal cambio a politiche di più ampio respiro che riguardano il corretto funzionamento del credito.

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