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L’Arabia Saudita frena sul vertice di Doha: sul petrolio niente…

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L’Arabia Saudita frena sul vertice di Doha: sul petrolio niente accordi senza Iran

Per quanto simbolico e probabilmente inefficace, l’accordo per congelare la produzione di petrolio sembrava ormai cosa fatta. Invece no. L’Arabia Saudita, a un paio di settimane dal vertice di Doha, a sorpresa si è tirata indietro: Riyadh non ha nessuna intenzione di mettere un freno alle estrazioni di greggio, a meno che non lo facciano anche tutti gli altri, Iran compreso.

A parlare - ribaltando ogni aspettativa del mercato e affondando le quotazioni del barile - non è stato un anonimo funzionario, ma uno degli uomini più potenti della monarchia sunnita: il principe Mohammed bin Salman, figlio trentenne del re, secondo in linea di successione al trono, al quale è affidata una lunga serie di incarichi di governo tra i più delicati e strategici.

Mohammed è ministro della Difesa, ma siede anche nel Consiglio per gli affari economici e lo sviluppo, un organismo istituito da suo padre, che ha la supervisione dei ministeri delle Finanze, dell’Economia e del Petrolio, nonché del fondo sovrano saudita, In un’intervista di cinque ore all’agenzia Bloomberg - in cui si è diffuso anche sull’Ipo di Saudi Aramco - il principe non ha lasciato dubbi sull’orientamento di Riyadh in vista del vertice del 17 aprile, che riunirà in Qatar una quindicina di produttori petroliferi Opec e non: «Se tutti i Paesi, compresi Iran, Russia, Venezuela, membri dell’Opec e tutti i principali produttori decidono di congelare la produzione, saremo con loro». E ancora: «Se c’è qualcuno che decide di aumentare la sua produzione, allora non respingeremo nessuna opportunità che bussi alla nostra porta».

Più chiaro di così Mohammed bin Salman non poteva essere.Le sue parole, sommate a una risalita del dollaro, hanno trascinato in ribasso del 4% il prezzo del petrolio, cancellando nel caso del Wti tutti i guadagni dell’anno: il riferimento americano ha chiuso a 36,79 dollari al barile, mentre la prima scadenza del Brent (giugno) ha concluso a 38,67 $.

Per la Russia - che aveva dato per certo un accordo anche con l’esenzione dell’Iran, impegnato a riguadagnare la produzione perduta con le sanzioni - si tratta di un bello smacco: il ministro dell’Energia Alexander Novak ha ammesso di non essere stato informato del voltafaccia dei sauditi. «È troppo presto - ha aggiunto - per parlare di una soluzione per il congelamento da parte dell’Iran nell’ambito di un accordo più ampio tra Russia e Arabia Saudita».

Forse è solo un gioco delle parti, l’ennesimo balletto di dichiarazioni che da metà febbraio sembra essere il principale fattore alla guida dei mercati petroliferi. Di certo Riyadh ha già potuto constatare che un accordo per congelare la produzione difficilmente riuscirebbe a tenere: la produzione saudita è davvero rimasta ferma da gennaio intorno a 10,2 milioni dibarili al giorno, ma l’Iran ha già spinto l’output al record dal 2012 (3,2 mbg secondo stime Bloomberg) e l’Iraq, che aveva avuto difficoltà tecniche, sta recuperando.

Il principe Mohammed bin Salman ha anche parlato dei progetti cardine con cui punta a rendere l’economia saudita «non dipendente principalmente dal petrolio» nel giro di vent’anni. Il Public Investment Fund (Pif), sarà rafforzato e diversificato, con l’obiettivo di renderlo «il più grande fondo sovrano della Terra, con oltre 2mila miliardi di dollari in gestione». Almeno metà degli investimenti saranno all’estero, contro l’attuale 5%, ma tra gli asset più preziosi ci sarà Saudi Aramco, la compagnia petrolifera più grande del mondo, con riserve dieci volte più ricche di quelle di ExxonMobil. Riyadh, afferma il principe, ne collocherà «meno del 5%» sulla borsa saudita forse già il prossimo anno, di certo non oltre il 2018.

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