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Il paradosso dell’era dei tassi bassi: le banche centrali vogliono…

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Il paradosso dell’era dei tassi bassi: le banche centrali vogliono l’inflazione ma azioni e bond sono a rischio bolla

Da qualche tempo a questa parte viviamo nella stagione dei tassi bassi. Talmente bassi da essere in alcuni casi negativi. Una fase paradossale, per certi versi non contemplata neppure nei manuali di economia. È quella fase in cui chi sta pagando un mutuo a tasso variabile in Danimarca riceve dalla banca un accredito di interessi, anziché pagarli. La stessa fase in cui le banche italiane sono “costrette” (pur non volendo e quelle che ancora non lo fanno sono state riprese da Bankitalia con una lettera) a sottrarre l’Euribor allo spread (anziché sommarlo) per calcolare la rata dei mutui in Italia.

Ma è anche la fase in cui i rendimenti delle obbligazioni governative tedesche offrono tassi negativi fino a 9 anni. Si sale a 10 anni in Giappone e a 15 anni in Svizzera. I nostri BTp sembrano essere fra i titoli più attraenti per gli investitori istituzionali (grandi fondi, assicurazioni) perché offrono rendimenti negativi solo su scadenze fino a 2 anni.

Chi lo avrebbe mai immaginato che un giorno il mondo finanziario si sarebbe capovolto andando a collezionare questa serie clamorosa di paradossi? Ciò che li unisce, l’elemento su cui questo nuovo schema finanziario si regge, è la combinazione tra bassa inflazione (che è in molti Paesi dell’area euro, soprattutto a Sud, è addirittura deflazione) e guerra delle valute.

Le banche centrali hanno il compito di mantenere la stabilità dei prezzi e di far sì che il tasso di inflazione annuo non si allontani dal punto di equilibro vicino al 2%. Quando le prospettive di inflazione nel medio periodo (cioè a 5 anni) sono più basse le banche centrali tendono ad attuare manovre espansive (prima provano a tagliare i tassi e, se questo non basta, stampano moneta attraverso il cosiddetto quantitative easing e, se il quantitative easing non basta, alcuni iniziano a domandarsi se non dovranno ricorrere all’helicopter money, il che si aggiungerebbe alla lista dei paradossi in atto).

Ed è quello che sta accadendo. Ma le banche centrali non stanno sfoggiando manovre espansive solo per l’inflazione: in un certo senso sono costrette a farlo per non permettere alle valute delle aree che “proteggono” di non crescere troppo, perché questo renderebbe poco competitive le esportazioni di quell’area. Anche per questo motivo ci troviamo in questa fase: perché è in corso una guerra valutaria a suon di manovre espansive delle banche centrali per evitare, nei panni della Fed statunitense che il dollaro si rivaluti, nei panni della Bce che l’euro si rafforzi troppo, nei panni della BoJ che lo yen corra, ecc.

Questa guerra è stata innescata dal primo quantitative easing lanciato dalla Fed nel 2009 che ha portato a una violenta svalutazione del dollaro. Dopodiché sono arrivate a ruota anche le altri principali banche centrali (la Bce con sei anni di ritardo per le ben note difficoltà a trovare accordi a tutto campo da parte di Paesi profondamente diversi che la compongono). Se tutte le banche fanno quantitative easing contemporaneamente i vantaggi valutari di chi si è mosso prima vengono neutralizzati e diventa un pericoloso gioco a somma zero. Con la differenza che nel frattempo i tassi di interesse dei titoli obbligazionari a lungo termine crollano, perché riflettono (oltre al rischio emittente e alle aspettative di inflazione anche il livello di partenza del costo del denaro, azzerato o reso negativo dalle politiche ultraespansive).

Questo (a larghi tratti) lo strambo quadro in cui ci troviamo adesso. Una curva dei rendimenti bassissima e appiattita complice la guerra valutaria in corso combinata alle strategie espansive delle banche centrali per rispondere alla crisi. Oggi ci troviamo in una fase in cui le banche centrali che confidano (al netto dell’aspetto della guerra valutaria) di stimolare la crescita dell’economia e quindi di assistere a una normalizzazione del tasso di inflazione intorno al 2%.

Proviamo però a chiudere gli occhi per un istante e immaginiamo che domani l’Italia e l’Eurozona anziché trovarsi in deflazione (-0,3% in livello di prezzi a marzo su base annua) si trovino con un’inflazione del 2%. Questo cosa comporterebbe lato investimenti? Quali conseguenze avrebbe dal punto di vista finanziario una normalizzazione del tasso di inflazione?

«Può sembrare contro-intuitivo. Per 30 anni i rendimenti delle obbligazioni a lunga scadenza sono scesi e i prezzi degli asset rischiosi sono saliti, cosa che sembra dimostrare un'alta correlazione. Si potrebbe anche supporre che un nuovo periodo di inflazione sarebbe terribile per le obbligazioni ma utile al mercato ad alto rendimento e all'azionario, dato che l'aumento dei prezzi sostiene i margini aziendali - spiega Brad Tank, chief investment officer fixed income di Neuberger Berman -. Questo è vero se consideriamo il lungo periodo. Tuttavia, se pensiamo alla gestione del rischio di portafoglio, è il movimento combinato dei prezzi degli asset di breve termine a contare sul serio».

« Considerando questo orizzonte temporale - prosegue Tank - se le attese di inflazione salgono in modo sostanziale probabilmente le obbligazioni ne sarebbero colpite ma varrebbe lo stesso discorso per i titoli azionari, dato che si tratta di strumenti con duration molto lunghe i cui flussi di cassa sono scontati con i rendimenti obbligazionari a lunga scadenza»

Quindi, e questo è l’altro paradosso della stagione dei tassi bassi/negativi, se l’inflazione risalirà le attuali costruzioni di portafoglio dei gestori rischiano di saltare. Se sale l’inflazione il castello di carta dei prezzi attuali di bond e azioni rischiano di crollare. «Ma finché l'inflazione rimane bassa, se il rendimento delle obbligazioni è spinto al rialzo anche il valore degli asset rischiosi tenderà ad aumentare - conclude Tank -. Tutto ciò suggerisce che gli investitori devono fare attenzione a un'inflazione più elevata piuttosto che ad un aumento dei tassi o a un'impennata dei fallimenti come segnale che sia arrivato il momento di riconsiderare la composizione di portafoglio. Ma questo segnale oggi resta molto debole».

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