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L’aumento, lo spread, la Bce, la tempesta perfetta lunga 5…

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LA STORIA

L’aumento, lo spread, la Bce, la tempesta perfetta lunga 5 anni

«Guardiamo con un certo ottimismo al 2011 e agli anni che abbiamo di fronte», diceva Federico Ghizzoni il 29 aprile del 2011 alla sua prima assemblea da ceo di UniCredit. Parole smentite dai fatti. Ma soprattutto, parole che oggi nessun banchiere oserebbe pronunciare: l’unione bancaria, la Bce con i suoi check-up, la crisi dello spread e i tassi a zero, la rivoluzione del digitale e la corsa ai nuovi modelli di business, tutto è cambiato nel mondo del credito e tutto continua a cambiare. Rendendo le banche cantieri semipermanenti e vanificando ogni velleità previsionale.

Cinque anni in cui il destino non ha fatto sconti a UniCredit, uscita dai fasti di Alessandro Profumo forse con qualche urgenza in più rispetto al resto del settore. Da quando si è trovato al timone, Federico Ghizzoni ha concentrato gli sforzi nel rinsaldare la truppa e garantire una navigazione serena: un merito finché la nave era circondata dalle onde, un limite da quando si è trovata nelle secche dei tassi zero e della prosciugata redditività. E così, forse, si spiega la scelta di cambiare timoniere da parte degli azionisti, che oggi sognano una (non facile) nuova fase di navigazione a vele spiegate.

«UniCredit vuol restare una banca paneuropea», diceva Ghizzoni, accanto al presidente Rampl, alla sua prima intervista a Il Sole 24 Ore, a 48 ore dal cda riunito a Varsavia che lo aveva incoronato ad. Promessa mantenuta, in fondo: a parte i mercati da cui non poteva non uscire, il Kazakistan e l’Ucraina, il gruppo ha mantenuto le posizioni. E ha rimesso in piedi l’Italia, che nel 2009 pesava per la metà dei ricavi e appena il 10% degli utili: l’anno scorso la rete domestica ha sfiorato il 50%, pur al netto degli accantonamenti pro quota - ancora elevati - sulla non core bank, dove due anni fa sono stati convogliati oltre 80 miliardi di crediti deteriorati.

Che insieme al capitale sono stati la grande ossessione del quinquennio. «Il nostro capitale è adeguato», diceva Ghizzoni al suo primo Cernobbio, nell’aprile 2011. Ma proprio in quei mesi i cugini di Intesa Sanpaolo decidevano di rivolgersi al mercato, e così - nell’ambito di quel testa a testa che in questi anni è stato croce e delizia di entrambe - anche su UniCredit si alzava il pressing. Poi la Grecia, il contagio sull’Italia e - nel pieno della crisi dello spread - la trimestrale shock da 10 miliardi di rettifiche e l’annuncio dell’aumento da sette e mezzo, portato sul mercato a inizio 2012. Operazione ben digerita, anche perché consentiva di fare ordine nell’azionariato, limitando la scomoda presenza dei soci libici e potenziando la pattuglia dei soci privati italiani, da Del Vecchio a Caltagirone, pronto a disinvestire dal Monte per puntare su Piazza Cordusio.

Intanto, Ghizzoni aveva già rivisto la squadra di vertice. Sensibile ai desiderata dei soci, perentori nella richiesta di spacchettare le deleghe in passato monopolizzate da Profumo, Ghizzoni già nell’autunno 2010 aveva optato per un solo direttore generale, Roberto Nicastro, nomina che nei fatti era costata l’uscita di Bruno Ermotti, oggi restìo a un rientro nel nuovo indirizzo di Piazza Gae Aulenti ma da alcuni considerato tra i papabili per la successione. La squadra, nei fatti, ha tenuto. Per lo meno fino all’anno scorso, da quando - sotto assemblea - tutti i nodi sono progressivamente venuti al pettine, e si è resa necessaria più di una staffetta in cabina di comando, con le uscite di Nicastro e del capo dei rischi, Alessandro Decio.

Due figure chiave, dentro e fuori alla banca, con la struttura e la Vigilanza. Che è stata l’altra variabile determinante del periodo Ghizzoni (e senz’altro del successore). Se i primi sentori di un radicale cambio di marcia si erano avuti nel 2011, con l’inserimento del gruppo tra le Sifi, le banche sistemiche, e i primi stress test targati Eba, il “bello” è iniziato con l’avvento della Vigilanza unica, anticipato da una nuova tornata di pesanti svalutazioni - primavera 2014, sempre in parallelo a Intesa Sanpaolo - e sancito da una piena promozione al comprehensive assessment dell’ottobre 2014, dove UniCredit si è trovata con un surplus certificato di 8,75 miliardi. Un traguardo che avrebbe dovuto trasformarsi in un punto di partenza. Ma non è avvenuto e, concordano in molti, quello è stato l’inizio della fine: il sorpasso di Intesa, i primi mugugni dei fondi emersi in assemblea con la maggioranza schierata per la lista Assogestioni, un tagliando al piano industriale accolto con freddezza dal mercato, il boomerang della garanzia all’aumento della Popolare di Vicenza.

Non a caso chi arriva troverà sul tavolo più o meno gli stessi dossier che avevano accolto Ghizzoni: il riassetto in Europa, con l’inevitabile uscita da qualche Paese, il destino di Pioneer e dell’investment banking, con l’ombra di Mediobanca sullo sfondo. Nel 2010 in appena nove giorni il presidente Rampl riuscì a portare il consiglio a chiudere la pratica, si vedrà se anche questa volta si troverà lo stesso abbrivio.

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