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Fare impresa? Più arte che scienza

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Fare impresa? Più arte che scienza

  • –Fabrizio Galimberti

Questa volta ci poniamo una domanda che sembra facile, ma è difficile. Chi è l’imprenditore? In che cosa è differente dai comuni mortali? Sembrerà strano, ma la scienza economica per molto tempo non è riuscita a incasellare la figura dell’imprenditore. Forse perché nell’intraprendere ci sono dimensioni che vanno al di là di quel razionale e quieto perseguimento del massimo risultato col minimo mezzo, che è la stella polare dell’agire economico (vedi sotto un florilegio di citazioni sulla figura dell’imprenditore). John Maynard Keynes, il grande economista del secolo scorso, aveva colto nel segno quando aveva parlato, per gli imprenditori, della spinta che deriva dagli “spiriti animali”. Gli animali non sono noti per la loro razionalità; piuttosto, sono noti per il cieco affidamento all’istinto.

E in effetti, spesso è l’istinto, l’intuizione, la pulsione, il “fiuto” che spinge l’imprenditore per strade mai battute. Ma prima di continuare su questa strada, vediamo di distinguere imprenditore e manager (parliamo qui del manager top, il manager di massimo livello). A prima vista, la distinzione non è difficile. L’imprenditore “ci mette la faccia”, e i soldi. Il manager, invece, è un dipendente, messo lì a far funzionare la baracca; non si identifica con l’azienda, deve preoccuparsi solo di svolgere bene il suo lavoro. A seconda vista, tuttavia, la distinzione, oggi, si sfuma.

In Italia ci sono molte imprese, cosiddette, familiari. Nate dalla geniale intuizione di un imprenditore padre o nonno o bisnonno, queste imprese passano da una generazione all’altra, finché... in molti casi, la nuova generazione non è molto interessata a continuare la dinastia imprenditoriale; oppure, l’impresa è cresciuta e non deve più essere gestita con criteri troppo familiari; oppure ancora, sorgono nuovi concorrenti, specie dall’estero, e le tradizioni di famiglia sono inadatte a gestire questa nuova situazione. Allora, in tutti questi casi, l’impresa viene messa nelle mani di un manager esterno. Dal patriarca, insomma, al manager. Ma in fondo, il compito affidato al manager è lo stesso che prima era nelle mani del capo-azienda, dell’imprenditore: tenere l’impresa sulla retta via e farla prosperare. È vero che il manager “non ci mette i soldi”, come nel caso dell’imprenditore. Ma certamernte anche lui ci mette la faccia e, in ogni caso, le forme di remunerazione che sono andate adottandosi, fanno sì che anche il manager ci metta i soldi. Nel senso che la sua remunerazione è strettamente legata alle sorti dell’azienda. Anche se è vero che non è sempre facile allineare gli incentivi finanziari al manager con la salute di lungo periodo dell’impresa, rimane vero che la distinzione fra imprenditore e manager tende a scomparire, eccetto, naturalmente, nel momento vitale della nascita di un’impresa.

Simon Kuznets, un premio Nobel dell’economia (del quale abbiamo parlato nel Sole Junior del 24 febbraio 2013) scrisse che «abbiamo bisogno di molti più studi empirici rispetto a quel che abbiamo fatto finora, dell’universo degli inventori... ». La stessa cosa si potrebbe dire per gli imprenditori, che in fondo sono una categoria di inventori: si inventano un prodotto, un processo, un modo di organizzare la produzione, il servizio al cliente, la distribuzione... Ma c’è una distinzione grande: l’inventore, per quanto geniale, non deve far funzionare un’impresa. Allora, l’intraprendere è un’arte o una scienza?

Conoscete bene la Apple, la famosa azienda americana creata da Steve Jobs, un’azienda che ha sfornato prodotti e mode che sono diventati icone del nostro tempo, dall’i-pod all’i-pad. Ebbene, che cosa ha in comune la Apple con la Pepsi Cola? Niente, direte. Anzi, è difficile immaginare due prodotti così lontani uno dall’altro. Eppure, nel 1983 John Sculley, il presidente della Pepsi Cola, fu chiamato a fare il capo-azienda (Ceo – Chief Executive Officer) della Apple: una posizione che mantenne per dieci anni. Questo episodio ci permette di rispondere alla domanda: l’intraprendere, il dirigere un’impresa, è un’arte o una scienza?

Senz’altro, più arte che scienza. John Sculley non sapeva molto di pc ed elettronica (si fece organizzare un corso intensivo sui prodotti) ma sapeva molto di come motivare una squadra, di come far ticchettare un organismo complesso come una grande azienda, come esercitare una leadership. La capacità di comando – la leadership, appunto – è un elemento essenziale per l’imprenditore. Il momento in cui un’impresa si crea è il momento dell’invenzione, dell’intuizione, dell’atto di creazione, della pulsione verso l’avventura produttiva. Ma l’imprenditore deve poi diventare manager e qui ha bisogno di altre qualità. L’impresa è fatta di persone, e il capitale umano è anche più importante del capitale fisico. Bisogna ispirare quelli che lavorano con l’imprenditore, farli partecipi di un progetto comune, costruire un sistema di incentivi (vedi anche l’articolo a fianco sul caso Insiel). L’Homo oeconomicus è un essere freddo e razionale, ma l’imprenditore deve aggiungere all’architettura organizzativa il calore delle relazioni umane, camminare sul crinale sottile di un equilibrio sempre sfuggente fra il bastone e la carota.

Una classe imprenditoriale degna del suo nome è un elemento portante di ogni processo di sviluppo economico. Purtroppo, non ci sono – né ci possono essere – scuole per imprenditori. Quelle qualità uniche che spingono a creare e dirigere un’azienda possono solo sorgere dall’humus di una società che rispetti i valori di mercato, senza pregiudizi ideologici anti-impresa e con una primazia del merito rispetto al “capitalismo di relazioni”.

fabrizio@bigpond.net.au