Finanza & Mercati

L’importanza della ripresa del dialogo tra Riad e Teheran

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L'Analisi|l’analisi

L’importanza della ripresa del dialogo tra Riad e Teheran

  • –di Davide Tabarelli

Era troppo aspettarsi già ieri un accordo Opec che limitasse la produzione, mentre è un buon risultato che almeno Iran e Arabia Saudita si siano parlati, dopo due anni di gelo, incoraggiati dal recupero dei prezzi a 50 dollari e sotto pressione degli altri paesi. L’Iran vuole tornare a produrre i volumi precedenti le sanzioni del 2012, 4 milioni barili giorno, livello dal quale non è troppo distante, con i 3,8 di inizio giugno. Alla prossima riunione del 30 novembre 2016, accetterà un limite alla produzione. I sauditi, constatata che la produzione al di fuori del cartello scende, rinunciano alla strategia delle quote di mercato a tutti i costi e ritornano a fare il leader responsabile del gruppo, come quasi sempre sono stati in passato. Ciò accade in un momento di profonda frattura politica fra i due, a pochi giorni dalle polemiche circa il pellegrinaggio degli iraniani ai luoghi santi della Mecca. Come in passato, il cartello è l’unico canale di dialogo fra le due potenze del Medio Oriente, il cui scontro degli ultimi 40 anni è la prima causa dell’instabilità politica dell'area. Per due anni gli aspetti religiosi e politici hanno avuto il sopravvento sugli interessi economici, con un allargamento delle guerre per procure, in particolare nel frantumato Iraq. I conti sono presto fatti: quando il barile era a 110 dollari, Teheran incassava 100 miliardi di dollari all’anno, Riad 380; se i prezzi fossero rimasti a 30 dollari, le entrate sarebbero state rispettivamente 30 e 100 miliardi di dollari. Sono le due teocrazie più importanti al mondo che rivendicano entrambi una leadership religiosa, ma anche loro, finite le preghiere, devono guardare alle loro tasche. Saranno devoti, a volte integralisti, ma arabi e persiani sono anche ottimi commercianti. Le ambiziose riforme del giovane principe saudita Mohammed Bin Salman sono fattibili solo con prezzi del petrolio più alti. L’Iran, spento l'entusiasmo per la fine delle sanzioni, tolte a gennaio 2016, deve procedere alla riforma del proprio stato, come dimostrano le difficoltà ad attivare nuovi investimenti dall'estero. Un percorso inevitabile, visto che la loro popolazione cresce a ritmi di 1,5 milioni in più all'anno, in gran parte giovani sempre più connessi al resto del mondo con il quale condividono aspirazioni di una vita migliore.

Il sistema delle quote, su cui si è discusso ieri, venne introdotto per la prima volta nel marzo del 1982, quando la guerra fra Iran e Iraq era iniziata da un anno e mezzo e l’Arabia Saudita si era schierata apertamente con Saddam Hussein per contenere la rivoluzione di Khomeini. Nei successivi otto anni di guerra, l’Iran non mancò mai alle riunioni, nonostante l’aggravarsi delle tensioni con l’Arabia Saudita. In 34 anni le quote sono state quasi sempre sforate dai singoli paesi, tuttavia in aiuto c’era la domanda che era in costante crescita. Il tetto di 30 milioni barili giorno, abbandonato lo scorso dicembre 2015 e che si sperava ripristinato ieri, è il doppio di quello degli anni ’80, divario significativo della relativa facilità con cui il cartello potrebbe riportare maggiore equilibrio. Quello che più conta è che l’Arabia Saudita, che produce 10 milioni barili giorno e che ha 2,5 milioni di capacità inutilizzata, cercherà di limitare l’eccesso di offerta. Non procederà a ulteriori aumenti di produzione per colpire l’Iran, come invece era accaduto a partire dal giugno 2014.

Anche se ha molte inefficienza, il mercato petrolifero internazionale un po’ funziona, visto che i prezzi bassi hanno causato il crollo degli investimenti in nuovi progetti. Rispetto al passato, la pressione della finanza sulle società petrolifere ha obbligato a tagli più pesanti. Nel 2016 le riserve globali di petrolio faranno segnare un calo come mai visto in passato, spianando la strada, fra qualche anno, a quello che sarà il nuovo ciclo rialzista. Del resto, tutti vogliono prezzi più alti. Lo vogliono gli altri paesi esportatori fuori dall’Opec, la nostra vicina Russia, il Brasile e gli altri produttori dell'Africa e del Sud America. Gli Usa lo vogliono, per tenere in vita il settore del fracking ed evitare fallimenti a catena. Lo vuole l’Europa, per scacciare lo spettro deflazione e per riprendere la rivoluzione ambientalista che oggi è un po’ in crisi, in quanto quotazioni del petrolio e del gas troppo basse rendono poco convenienti le rinnovabili. La crisi dei prezzi bassi volge al termine e noi, dipendenti da petrolio, destinati a rimanere tali a lungo, abbiamo perso un’altra occasione per cercare con i produttori qualche accordo che eviti la prossima crisi, questa volta al rialzo.

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