Finanza & Mercati

Supporto pubblico inevitabile per le banche Ue

  • Abbonati
  • Accedi
L'Analisi|analisi

Supporto pubblico inevitabile per le banche Ue

La Banca dei Regolamenti Internazionali ha detto chiaro e tondo che l’Europa sta sottovalutando il problema delle banche e lo ha detto domenica, nel suo rapporto annuale, che ovviamente non tiene conto del referendum britannico e del primo traumatico impatto che è già iniziato, nonostante la pronta e massiccia azione di contenimento a tutti i livelli.

Pur nell’ovattato linguaggio dei banchieri centrali, il prestigioso istituto di Basilea ammonisce da tempo che l’uscita dalla crisi sarà lunga perché per decenni prima i paesi avanzati, poi quelli emergenti hanno accumulato un volume di debiti (innanzitutto del settore privato) mai sperimentato in precedenza e che risulta oggi eccessivo. Questo problema si combina con altri due: una crescita della produttività modesta (dunque meno risorse per ripagare il debito pregresso) e un limitato margine di manovra delle politiche di sostegno, a causa dei vincoli alla spesa pubblica. Un insieme definito, con un titolo degno di un film di Sergio Leone, la «rischiosa trinità ».

Questo scenario disegna il peggiore dei mondi possibili per le banche dei paesi più colpiti dalla crisi come i periferici d’Europa, comprese quelle, come le italiane, che pure partivano da condizioni iniziali robuste. Peggiora infatti la qualità degli impieghi, con ovvie conseguenze economiche e patrimoniali e si rafforza il circolo vizioso che lega le banche a doppio filo con il debito pubblico nazionale. Su quest’ultimo fronte l’evidenza empirica è univoca: il giudizio dei mercati su banche e debito pubblico dei vari paesi tende a muoversi in parallelo e il legame si accentua per le banche dei paesi le cui finanze sono giudicate più deboli e per quelle che investono di più in titoli pubblici nazionali.

Quest’ultimo dato merita una riflessione. È vero che negli ultimi tempi le banche dei paesi periferici, Italia in testa, hanno investito massicciamente in titoli del proprio paese. Ma era esattamente quello che si proponeva nel luglio 2012 l’annuncio di Mario Draghi che la Bce era pronta a fare «tutto il necessario» per salvare l’euro. Nell’incertezza generale che circonda l’uscita dalla crisi finanziaria, non solo in Europa, era illusorio pensare che gli investitori internazionali sarebbero accorsi in massa per acquistare titoli italiani o spagnoli.

Il problema è che, per aggiungere il danno alle beffe, oggi molti chiedono che il rischio sovrano venga considerato ai fini dei coefficienti prudenziali di capitale, il che potrebbe avere effetti estremamente negativi per una fetta consistente del sistema bancario europeo.

Per tutti questi motivi, l’analisi della Bri porta a concludere che «politiche diverse ci avrebbero messo in una posizione migliore» (altro modo soft per criticare quanto fatto finora) e che occorre mettere mano ad interventi più decisi per riportare in equilibrio i bilanci delle banche. Il problema è tanto più urgente se si considera che la redditività di base, quella collegata al margine di interesse, è sacrificata dal livello eccezionalmente basso dei tassi. In un mondo in cui 8 trilioni di titoli offrono un rendimento negativo è inevitabile che il ciclo dei profitti degli intermediari finanziari (non solo banche) sia ai minimi storici.

Per tutti questi motivi, l’analisi della Bri giunge alla conclusione che occorre fare qualcosa di più e di diverso per uscire dalla crisi e che occorre mettere mano alla manutenzione straordinaria dei bilanci delle banche.

È peraltro pura utopia pensare a strade astrattamente di mercato. Il supporto pubblico non deve essere considerato come un demone da esorcizzare, ma come una strada obbligata di fronte ad un fallimento di mercato come una crisi che si protrae da quasi nove anni. È esattamente quello che è accaduto in Svezia negli anni Novanta e negli Stati nel 2008. Bruxelles invece, ossessionata dagli aiuti di Stato (peraltro tardivamente dopo i salvataggi pubblici tedeschi e francesi), continua a dimenticare che l’equivalente svedese di Atlante era pubblica e che se le banche americane si sono riprese immediatamente dopo la crisi il merito è dei fondi TARP prontamente elargiti dallo zio Sam.

Ma anche la ricapitalizzazione delle banche, che pure si è dimostrata indispensabile per riavviare i meccanismi del credito, difficilmente può avvenire in modo ordinato senza un’adeguata rete di protezione. Gli stress test sono efficaci se c’è un investitore di ultima istanza, altrimenti rischiano di trasformarsi in eventi traumatici per le singole banche e per il mercato nel suo complesso.

A questo proposito, il rigore che la Bce sembrerebbe voler adottare nell’esame ormai alle porte, potrebbe risultare assai pericoloso o controproducente, certo non del tutto coerente con la corposa, e teoricamente fondata, analisi del rapporto della Bri. Quest’ultima infatti sostiene che occorre cambiare marcia nelle politiche che riguardano il settore bancario e che le scelte di Bruxelles (ma forse anche quelle di Francoforte) richiedono un ripensamento profondo. Lo scenario del dopo Brexit ovviamente non può che rafforzare queste considerazioni. Ovviamente, anche le banche ci devono mettere del loro; e infatti il rapporto Bri non manca di osservare che in molti paesi c’è un eccesso di capacità produttiva (in particolare una diffusione capillare degli sportelli che ha sempre meno senso nel mondo di internet), ma le ristrutturazioni aziendali non possono essere efficaci se le politiche generali non tengono conto dei problemi gravi segnalati dalla Bri. Fra le sveglie che devono suonare in Europa, come ha chiesto questo giornale all’indomani del referendum, c’è anche quella che riguarda il sistema bancario europeo.

© Riproduzione riservata