
l’apertura di Bruxelles sulle ricapitalizzazioni é un primo passo , ma a Roma non basta: la trattativa va avanti e la strada é ancora lunga per definire i confini degli interventi. Al centro del confronto c’è una sospensione del bail in e del burden sharing, i meccanismi di ripartizione degli oneri fra i soggetti coinvolti a vario titolo nella banca. L’obiettivo del governo italiano è ottenere da Bruxelles una sospensione non generalizzata, limitata a singoli istituti e al verificarsi di specifiche condizioni eccezionali, ma estesa comunque anche agli investitori istituzionali e non solo al retail. Il passo in avanti emerso ieri per il momento guarda invece solo la protezione dei non istituzionali: troppo poco per Roma, perché il limite non eliminerebbe nei fatti un ostacolo importante alla possibilità effettiva di operazioni di ricapitalizzazione con la partecipazione pubblica o con garanzie pubbliche.
A Palazzo Chigi nella tarda mattinata di ieri si sono visti ancora il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, per fare il punto sulla situazione e studiare le prossime mosse, a ribadire che il governo italiano non ha nessuna intenzione di allentare il pressing su Bruxelles per le banche. Per mercoledì, invece, è in calendario una riunione ai vertici del ministero dell’Economia per mettere sul piatto i risultati raggiunti e le strade da percorrere. L’ottica, ancora una volta, è preventiva: la possibilità tecnica di garanzie pubbliche sulle emissioni, già ottenuta, può alleggerire i costi di raccolta della liquidità per le banche anche senza scattare effettivamente, e la stessa funzione potrebbe essere svolta sul fronte del capitale.
In questo quadro, la trattativa in corso con la Commissione continua a muoversi su un piano “precauzionale” e individuale, attivabile cioè caso per caso in relazione a singole banche che dovessero incappare in difficoltà eccezionali: una sospensione “mirata”, insomma, e non uno stop generalizzato al meccanismo del burden sharing. Su queste premesse, per il governo resta però insufficiente l’apertura fatta a Bruxelles di un burden sharing attenuato (debt to equity swap) di fatto solo sugli investitori non istituzionali.
Il passo in avanti di un confronto che rimane difficile nasce dal fatto che gli istituti italiani soffrono in questa fase più su capitalizzazione e crediti deteriorati che sulla ricerca di liquidità. In gioco ancora una volta c’è il ventaglio di meccanismi scritti all’articolo 18 del decreto legge 180/2015, quello che ha tradotto in italiano le regole europee del bail in disciplinate dalla direttiva Brrd. Accanto alla «garanzia dello Stato sulle passività di nuova emissione», oggetto dell’intesa emersa la scorsa settimana, fra le ipotesi di «sostegno finanziario pubblico straordinario» per evitare o porre rimedio a una grave perturbazione dell’economia e preservare la stabilità finanziaria» trova spazio anche «la sottoscrizione di fondi propri o l’acquisto di strumenti di capitale».
Più di commi e sotto-commi, ovviamente, conta la sostanza dei problemi in campo, e nel quadro di volatilità che sta dominando in Borsa è difficile azzardare previsioni. Alla notizia dell’intesa europea i titoli bancari a Piazza Affari avevano rimbalzato trascinando in alto il Ftse-Mib di giovedì, ma venerdì l’indice del settore è tornato a marciare all’indietro lasciando sul terreno l’1,9% (mentre il listino generale cresceva dello 0,61%).
L’andamento dei titoli è ovviamente la prima variabile sulle sorti del capitale e quindi sull’eventuale esigenza di strumenti eccezionali di copertura, soprattutto dopo che a Milano il comparto ha perso il 54,2% in sei mesi, periodo nel quale Mps ha lasciato sul campo il 68,95% e Banco Popolare il 77,08%.
La questione si intreccia all’incognita legata alle pagelle che le banche italiane (sono coinvolte Intesa, Unicredit, Monte dei Paschi, Ubi e Banco Popolare) riusciranno a spuntare negli stress test dell’Autorità bancaria europea i cui esiti saranno comunicati il 29 luglio. I test, a differenza del passato, non indicheranno una soglia minima di capitale sotto la quale scatta l’obbligo di nuovi interventi (si veda Il Sole 24 Ore di ieri), ma è chiaro che risultati opachi (in particolare nei calcoli relativi allo scenario «avverso», reso meno improbabile proprio dal referendum britannico) peseranno su un mercato già parecchio agitato.
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