Sui mercati si è di nuovo scatenata la fuga dal rischio, con tutto quel che ne consegue. Basterebbe questo a spiegare l’ulteriore impennata dell’oro - ieri ai massimi da due anni e mezzo,oltre 1.370 dollari l’oncia - e la rinnovata debolezza di molte altre materie prime: asset, questi ultimi, giudicati particolarmente pericolosi in periodi di elevata incertezza e volatilità.
Il quadro non è tuttavia così chiaro da poter essere ricondotto alla classica situazione “risk on-risk off”. Le variabili in campo sono numerose e complesse, gli scenari difficili da interpretare anche per gli analisti più autorevoli, figurarsi per i piccoli risparmiatori, che oggi hanno a disposizione strumenti semplici e di facile accesso per investire sulle materie prime - gli Etf - ma che non per questo dovrebbero abbandonare la cautela.
Persino governi e banche centrali danno talvolta l’impressione di navigare a vista, presi in contropiede dalla Brexit. Dalle minute relative all’ultima riunione del comitato monetario della Fed, diffuse ieri sera, emerge chiaramente che i banchieri centrali americani hanno giudicato «prudente aspettare dati ulteriori sulle conseguenze del voto in Gran Bretagna» prima di prendere decisioni sui tassi di interesse. All’epoca mancava ancora una settimana al referendum, ma tuttora il quadro resta quanto mai confuso. E lo resterà a lungo. L’uscita di Londra dall’Unione europea è un evento senza precedenti e la consultazione del 23 giugno è solo l’innesco di un processo che si protrarrà certamente per anni, di cui per ora non si conoscono con precisione né i tempi, né tanto meno le modalità e gli eventuali ostacoli che potrebbe incontrare sul cammino.
La maggiore preoccupazione in questo momento è quella del contagio, con ricadute politiche ed economiche che potrebbero estendersi ad altre aree geografiche, dell’Unione europea e non solo.
In un sistema finanziario sempre più globale e interconnesso, le reazioni si intrecciano e le ripercussioni arrivano a raggiungere ogni angolo del pianeta. La moneta giapponese, lo yen, bene rifugio come l’oro, si sta apprezzando rapidamente. Quella cinese, lo yuan, è crollata ieri ai minimi da 5 anni sul dollaro: evento particolaremente rischioso per i prezzi delle materie prime.
In uno studio di qualche mese fa Bank of America Merrill Lynch ha calcolato che i prezzi delle commodities rischiano di scendere dello 0,6% per ogni punto percentuale di svalutazione dello yuan, con un impatto più accentuato per le materie prime di cui Pechino domina i consumi globali. È il caso del rame, ad esempio, che non a caso sta perdendo rapidamente terreno dopo che lunedì era salito ai massimi da due mesi. Anche per il petrolio la Cina è sempre più importante, seconda per consumi e importazioni solo agli Stati Uniti: se il suo potere di acquisto diminuisce, con la perdita di valore dello yuan, la domanda potrebbe soffrirne. C’è probabilmente anche questo fattore all’origine dei forti ribassi con cui il greggio ha avviato la settimana, culminati in un tonfo di oltre il 4% martedì. Il Brent, dopo essere scivolato sotto 48 $, vicino ai minimi da due mesi, è tuttavia rimbalzato ieri del 2%, sulla scia di Wall Street, con cui è tornato a muoversi in sincronia.
Potrebbe essere legato alla Cina e alla yuan anche il fatto che l’argento, dopo aver corso quest’anno anche più dell’oro, ieri invece ha stornato.
Nonostante la presenza sempre più massiccia di fondi algoritmici, sui mercati delle materie prime contano ancora parecchio anche i fondamentali. Specie in questa fase, in cui gli operatori aspettano con ansia ogni segnale di inversione di tendenza dopo due anni di eccesso di offerta che non hanno riguardato solo il petrolio, ma anche molti metalli e prodotti agricoli. Ma le dinamiche della domanda e dell’offerta possono essere diverse, da una materia prima all’altra. Anche in questo caso gli scenari sono complessi e le previsioni degli esperti vengono spesso tradite.
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