Finora in Italia il mercato dei crediti deteriorati ha stentato a partire perché chi deve vendere, cioè le banche, ritiene che il prezzo offerto dal mercato, da vasta parte del mercato, non sia allineato con il valore reale.
La questione è contabile, visto che più è basso il prezzo più sono alte le svalutazioni che le banche dovranno mettere a bilancio. Ma anche di orgoglio: per un istituto di credito svendere gli Npl, o meglio liquidarli, significa anche sconfessare le politiche di bilancio tenute nel corso degli anni e dare comunque per morto ciò che morto non è ancora, visto che in buona parte dei casi recuperi sono possibili. A maggior ragione per i crediti coperti da garanzie, spesso di valore superiore all’importo della svalutazione già effettuata.
È così che si spiega l’enfasi crescente che si sta ponendo intorno al tema, che ha dominato all’assemblea dell’Abi - insieme a quello, collegato, all’intervento pubblico nelle banche in difficoltà - e l’attenzione con cui tutto il sistema segue le mosse di Atlante, costruito proprio per rompere il circolo vizioso che finora ha congelato il mercato.
A tre mesi dal varo del fondo, con le risorse più che dimezzate e in attesa di un sofferto refill, ci si è resi conto che difficilmente Atlante potrà risolvere tutti i problemi delle banche italiane in fatto di Npl. Cionondimeno serve un intervento di rottura, che sappia valorizzare anche la dimensione - in fondo - mutualistica che lo ha ispirato: ne va della credibilità del sistema (e quindi anche della sua solidità, dal momento che la speculazione tende ad accanirsi contro chi dimostra di non essere in grado di difendersi). Il banco di prova della trattativa con Mps, con tutti gli occhi puntati, è un’occasione troppo importante per non essere colta pienamente,
con una soluzione che dia il giusto valore e impedisca un’immeritata svendita. Accanto alla salvezza del Monte ma anche, forse, in ballo c’è anche l’orgoglio di tutto il sistema.
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