Adesso, conosciuto l’esito degli stress test, si potrebbe pensare di tornare ad acquistare i titoli delle banche. Qualcuno ci ha già pensato, a dire il vero, ma negli Stati Uniti, non in Europa. Per esempio i gestori di JP Morgan AM hanno detto di aver “sovrapesato”, ossia acquistato oltre il peso che il settore ha sull’indice generale, le azioni delle banche americane. E il responsabile degli investimenti di Northern Trust sostiene che i titoli bancari sono «certamente a buon mercato». Difatti lo sono, quanto meno lo sembrano, non fosse altro perché sono quelli che da un anno a questa parte hanno perso più di tutti.
Quelli di Wall Street (dai massimi relativi di luglio 2015) sono arrivati a perdere il 30% a febbraio, 16 punti percentuali più dell’S&P 500. Si ritrovano oggi con uno scarto di 19 punti rispetto a una borsa che però è volata a nuovi record. Quelli di Londra, dopo il minimo di febbraio (-39% e una differenza di 18 punti sul Footsie), sono a dispetto della Brexit un poco risaliti, ma il loro scarto con l’indice generale è aumentato a 28 punti. A Tokyo, il settore bancario era crollato del 47% a febbraio (19 punti peggio del Nikkei) e, pur dopo un lieve recupero (-40%), si ritrova 20 punti staccato dall’indice. L’eurozona assomiglia molto al Giappone, pur avendo fatto peggio. A febbraio l’euroStoxx banks era caduto del 45% (20 punti peggio dell’indice) e si ritrova oggi agli stessi livelli, ma con 29 punti di distacco dall’euroStoxx. Impietoso il confronto con il settore italiano che, dopo un ribasso del 49% a febbraio, è arrivato a perdere il 64% a inizio mese, per risalire oggi a -56%.
Da questo noioso excursus intuiamo alcune cose: che la debolezza del settore è universale; che s’è risolta in crisi vera e propria in Giappone e in eurozona (e in un disastro in Italia); che, mentre negli Usa e in parte anche in Uk, si sono visti miglioramenti da febbraio, e una sostanziale stabilità in Giappone, le cose hanno seguitato a precipitare in eurozona. I motivi per cui le banche soffrono sono evidenti: quelle americane, perché sono esposte verso il settore energetico (che è una parte dell’economia), quelle europee e giapponesi perché hanno dovuto accantonare ingenti somme a fronte di quasi tutti gli impieghi. E il dramma dell’Italia, che ha subìto una recessione più lunga e più profonda, è di avere sofferenze quasi triple rispetto alla media europea.
Ma eurozona e Giappone hanno un altro punto in comune: i tassi negativi che sono un tossico per i bilanci bancari, perché annullano quasi i margini d’interesse e, dunque, comprimono gli utili. Se i titolieuropei e nipponici sono quelli che più hanno perso, e lo si vede dal rapporto tra prezzo e patrimonio (sceso a 0,4-0,5), non necessariamente sono a grande sconto (p/e), se si considera la loro minor redditività. C’è un’ultima considerazione. Mentre le sofferenze generano una quasi contestuale perdita (per i maggiori accantonamenti), altre attività, come certi derivati difficili da valutare, possono provocare disastri in presenza di shock che nemmeno gli stress test sono in grado di valutare.
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