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Listini globali a tre velocità. Gli emergenti corrono di più

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L'Analisi|l’analisi

Listini globali a tre velocità. Gli emergenti corrono di più

Da un lato i record di Wall Street. Dall’altro le difficoltà, seppure di recente attenuate, dell’Europa. Infine: la corsa degli emergenti. È la fotografia delle Borse mondiali nel 2016. Certo: la realtà è più articolata. Negli emerging, analogamente al Vecchio continente, la situazione è a macchia di leopardo. In Asia, poi, i mercati cinesi e quello giapponese sono entrambi in rosso. Ciò detto la sintesi regge. I listini globali, fin qui, sono andati a tre velocità. La riprova? La forniscono le performance degli indici stessi. L’S&P 500, alla chiusura di giovedì, da inizio anno segnava un rialzo del 6,4%. Lo Stoxx Europe 600, al contrario, è in ribasso di circa il 6%. Il primo gradino del podio, però, se lo aggiudica l’Msci emerging index. Il paniere, rappresentativo dei Paesi in via di sviluppo, cresce di oltre il 14%. Al che il signor Rossi domanda: quali le cause del balzo delle Borse emergenti?

Petrolio e affini
Le risposte sono diverse. «Tra queste, però - spiega Guglielmo Manetti, Vice Direttore Generale di Intermonte advisory-, una deve ricercarsi nella ripresa delle commodity. In particolare del petrolio». Così non stupisce che il livello più basso toccato dal prezzo del barile, nell’ultimo anno, coincida con il minimo dell’Msci emerging index. «Le economie in questione, spesso, si basano sull’estrazione ed esportazione dell’oro nero». Nel momento in cui il listino del petrolio ha ripreso a salire gli investitori sono tornati a comprare. E di qui è partita la rimonta dei mercati. In tal senso il Brasile è emblematico. Lo Stato carioca attraversa una dura crisi politico-economica. Nel primo trimestre del 2016 il Pil è crollato del 5,4%. Non solo. Mercoledì scorso il Senato brasiliano ha dato l’ok al processo di impeachment contro la presidente Dilma Rousseff. La quale, dal canto suo, ha invitato la popolazione a resistere contro quello che definisce un «golpe bianco». Insomma: al di là della vetrina dei giochi olimpici la situazione è difficile. Ma tant’è: il Bovespa, da inizio 2016, guadagna il 34,49%.

Economie di carta e Fed
A ben vedere la dinamica indicata rappresenta (anche) l’esempio di una finanza di carta scollegata dal mondo reale dei fondamentali. È vero! Gli esperti ricordano che, nel 2015, il Bovespa era letteralmente crollato: il rimbalzo, quindi, è più comprensibile. Inoltre, a torto o a ragione, gli operatori valutano i processi in corso come una lotta anti-corruzione. Il che dà fiducia agli investimenti.

Ciò detto, però, le motivazioni paiono insufficienti. Anche perché il rialzo del petrolio non ha ancora prodotto effetti sui fondamentali. In realtà un’altra è la variabile che recita un ruolo essenziale: la politica monetaria della Federal Reserve. Diversi Paesi emergenti (Brasile compreso), e le loro aziende, sono in larga parte indebitati in dollari. In un simile contesto il ritocco all’insù del costo del denaro Usa costituirebbe un problema. Sennonché, nonostante il recente positivo dato sul mercato del lavoro, la Fed non pare decisa (nell’immediato) all’ulteriore stretta. Gli stessi derivati sui Fed Fund implicitamente prevedono il rialzo nel 2017. L’effetto? La liquidità, a caccia di rendimenti, ha aumentato l’esposizione a Brasile ed altri emergenti, facendone salire i listini. Il tutto, da un lato, sfruttando analisi quantitative e correlazioni tra asset; e, dall’altro, scordando (per l’appunto) i fondamentali.

Quei fondamentali che, almeno rispetto alle ultime semestrali della Corporate Usa, non giustificano il rialzo di New York. Wall Street, tuttavia, fa orecchie da mercante e continua a salire. Secondo il P/e di Shiller l’S&P 500 è sopravvalutato del 62,9%. Lo stesso Wilshire total market (una buona approssimazione di tutti i listini Usa) vale, rispetto all’ultimo valore del Pil Usa, circa il 123%. Un livello molto elevato. La logica, quindi, direbbe che il ritracciamento è dietro l’angolo. Ma tant’è: niente! Al che il signor Rossi chiede: perché? La risposta richiama nuovamente la grande liquidità in circolazione. Anni e anni di politiche ultra-espansive, da una parte, hanno inondato le piattaforme di scambio di denari elettronici. Dall’altra hanno spinto i tassi di mercato a livelli infimi. Tanto che la liquidità descritta si riversa anche, e soprattutto, sulle Borse statunitensi. Le quali, rese attraenti da buy back miliardari, sono considerate più «sicure» di quelle europee. Quest’ultime, infatti, hanno subito gli infiniti scossoni legati alle banche (leggi sofferenze in Italia) e alla Brexit. Quindi: meglio sottopesarle. Il futuro sarà più roseo? Difficile dire. Il Pil del Vecchio continente rallenta. E poi, tra gli appuntamenti politici, non ci sono solamente le presidenziali Usa. Bensì anche il referendum italiano. Un’eventuale crisi politica in Italia? Farebbe ripartire l’ottovolante di Eurolandia.

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