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Petrolio, prove di intesa tra Arabia Saudita e Russia. E il prezzo corre

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Petrolio, prove di intesa tra Arabia Saudita e Russia. E il prezzo corre

Il fiasco di Doha è davvero fresco nella memoria. Ma il mercato del petrolio, a soli quattro mesi dal fallimento del vertice tra paesi Opec e non , è tornato a farsi suggestionare dall’ipotesi di un patto per congelare, se non addirittura tagliare la produzione. Le quotazioni del greggio - che all’inizio di agosto erano rotolate verso 40 dollari al barile, finendo in bear market, ossia in ribasso di oltre il 20% dai massimi dell’anno - hanno ricominciato a correre da quando è riemersa la possibilità di un accordo tra produttori e ieri, con un ulteriore rialzo di quasi il 2%, hanno chiuso a livelli che non toccavano da oltre un mese: 49,23 dollari al barile per il Brent per consegna ottobre e 46,58 dollari per il Wti di settembre.

LE QUOTAZIONI DEL BRENT
Ice, prima posizione. Dollari al barile.

In verità qualche ombra è comparsa sul quadro che, con la probabile regia dell’Arabia Saudita, era stato sapientemente dipinto nei giorni scorsi. Ma le azioni di ricopertura dei fondi di investimento, che in precedenza avevano accumulato posizioni ribassiste da record, sono proseguite lo stesso consentendo al petrolio di chiudere di nuovo in positivo, con un recupero di oltre il 10% solo nelle ultime quattro sedute.

A guastare l’atmosfera di armonia che sembrava essere tornata all’interno dell’Opec e nelle sue relazioni con la Russia sono intervenute le dichiarazioni al Wall Street Journal di una portavoce del ministero del Petrolio iraniano, secondo cui Teheran non ha ancora deciso se partecipare all’incontro tra produttori che è in preparazione tra il 26 e il 28 settembre ad Algeri, a margine dell’International Energy Forum. Dell’organizzazione del meeting, definito informale, si starebbero occupando non solo Venezuela e Ecuador - che da tempo spingono per un’iniziativa che rilanci i prezzi del petrolio - ma questa volta anche il Kuwait, che di solito è schierato sulle posizioni dei sauditi.

Al vertice di metà aprile a Doha era stato il rifiuto dell’Iran a partecipare al congelamento della produzione petrolifera a far irrigidire Riad, fino al punto da spingere l’ormai ex ministro Ali Al Naimi a far naufragare un accordo che sembrava già fatto (si veda il Sole 24 Ore del 19 aprile). All’epoca Teheran sosteneva di non voler frenare le estrazioni di greggio prima di essere tornata ai livelli produttivi del periodo precedente alle sanzioni internazionali, che identificava a 4-4,2 milioni di barili al giorno. Oggi quel traguardo sembra a portata di mano: l’output è risalito a 3,6 mbg in luglio e aveva cominciato a diffondersi la convinzione che l’Iran potesse a questo punto dimostrarsi più malleabile. La portavoce del ministero ha smorzato le aspettative anche su questo fronte l: «Non pensiamo che a fine settembre avremo raggiunto quei livelli di produzione (4-4,2 mbg, ndr)».

Anche il ministro del Petrolio nigeriano Emmanuel Ibe Kachikwu ha contribuito a gettare acqua sul fuoco:  «Da parte mia l’ottimismo è piuttosto scarso - ha commentato via Twitter sul possibile esito degli incontri di Algeri -. Credo comunque che il coinvolgimento del 70% dei produttori di petrolio potrebbe avere un impatto».

La produzione della Nigeria non è ancora tornata alla normalità dopo l’ondata di attacchi dei guerriglieri del Delta del Niger contro le installazioni petrolifere: tuttora mancano all’appello 700mila bg. Anche l’output del Venezuela è in drastico declino a causa della gravissima crisi economica e politica del Paese: Caracas ha estratto 2,36 mbg in giugno, il 9% in meno rispetto a un anno prima e il minimo dal 2003, quando un lunghissimo sciopero paralizzò l’industria petrolifera locale, causando danni in parte irreversibili. Il Governo ha un incentivo forte a premere per un’azione che rilanci i prezzi del petrolio e il ministro Eulogio Dal Pino è ripartito per un nuovo giro di incontri diplomatici, simile a quello che aveva preceduto il vertice di Doha. Lunedì era proprio a Teheran

L’Arabia Saudita almeno per il momento sta dando una mano (anche se la sua produzione di greggio ha raggiunto il record di 10,7 mbg in luglio). È stato proprio il ministro saudita Khalid Al Falih a dare il contributo più forte per infiammare i prezzi del petrolio, con la bozza di una sua intervista alla Saudi Press Agency che giovedì è finita «per errore» nelle caselle e-mail di alcuni giornalisti stranieri, informandoli che Riad è pronta a scendere in campo. Il messaggio di Al Falih è esplicito: «Se c’è bisogno di un’azione per aiutare il mercato a riequilibrarsi allora interverremo, naturalmente in cooperazione con l’Opec e con i maggiori esportatori non Opec». Il Forum di Algeri, conferma il ministro saudita, sarà un’opportunità per discutere anche eventuali «azioni che dovessero servire per stabilizzare il mercato».

Anche la Russia ha puntualmente risposto all’appello, dando un’ulteriore pennellata all’affresco. Il ministro dell’Energia Alexander Novak ha parlato lunedì col giornale saudita Asharq al-Awsat (che guarda caso è pubblicato a Londra), assicurando che il dialogo tra Mosca e Riad «si sta sviluppando in modo tangibile» e che i due Paesi stanno cooperando in consultazioni con l’Opec e altri Paesi produttori. «Siamo pronti a raggiunfere il più ampio livello di cooperazione possibile - ha concluso Novak - mettendo in atto misure congiunte per ottenere la stabilità del mercato del petrolio, a condizione che tali misure non siano limitate nel tempo». Il remake del periodo pre Doha è quasi perfetto.

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