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Siena si avvicina al distacco dalla banca

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Siena si avvicina al distacco dalla banca

  • –Cesare Peruzzi

Il prossimo aumento di capitale di Banca Mps, il terzo dal 2014, già previsto entro l'anno fino a un massimo di 5 miliardi, potrebbe portare al definitivo addio della Fondazione Mps come azionista del gruppo di Rocca Salimbeni. Ma, sia che l'Ente presieduto da Marcello Clarich, che oggi detiene l'1,49% della banca senese, decida di non salire sul treno della ricapitalizzazione (il biglietto costerebbe fino a 75 milioni), sia che prevalga la scelta di aderire solo parzialmente, con l'obiettivo di mantenere una sia pur modesta partecipazione (intorno all'1%), lo “strappo” vero è già avvenuto. E, paradossalmente, quello che la città del Palio ha vissuto come una sorta di tragedia, economica e sociale, cioè la progressiva e rapida perdita d'influenza della Fondazione sulla banca, per il sistema finanziario nazionale ed europeo ha rappresentato niente più che una “normalizzazione”. Auspicabile e auspicata.

Nel corso dei 21 anni di vita della Fondazione di Palazzo Sansedoni, i rapporti con il Monte (che è molto più vecchio, avendo mosso i primi passi nel 1472) hanno passato tre fasi distinte. La prima, dal 1995 al 2001, quando l'Ente aveva il totale controllo della banca, solo in parte attenuato dalla quotazione dell'ex istituto di diritto pubblico (nel giugno del 1999), e le poche centinaia di metri che dividono Palazzo Sansedoni da Rocca Salimbeni costituivano una distanza vera, con i vertici del Monte molto sensibili a tutelare la propria autonomia, e quelli dell'Ente (Giovanni Grottanelli de'Santi presidente e direttore generale Emilio Giannelli furono i primi) impegnati a interpretare correttamente il ruolo di azionista di controllo.

Con l'arrivo di Giuseppe Mussari sulla poltrona di presidente della Fondazione, nel 2001, inizia un periodo sostanzialmente diverso, perché la politica entra direttamente nel sistema-Mps, rompendo quel diaframma, certo formale ma nella pratica anche sostanziale, che aveva rappresentato un buon argine ai tentativi d'ingerenza non filtrati dalle regole. In questa fase, il dialogo tra Fondazione e banca è stato spesso difficile, fino alla vittoria definitiva del nuovo corso, con lo sbarco di Mussari al vertice del gruppo di Rocca Salimbeni, nel 2006, e la nomina di Gabriello Mancini (che di Mussari in Fondazione era il vice) come numero uno di Palazzo Sansedoni. Il cambio di passo è radicale, perché da quel momento è il Monte che detta la linea al suo maggior azionista.

Quello che resta costante è l'irrinunciabilità del controllo sulla banca senese da parte della Fondazione, al punto che per adeguarsi formalmente alle normativa che imporrebbe di scendere sotto la soglia del 50% nell'azionariato, l'Ente abbassa sì al 49% la propria quota di azioni ordinarie, ma conserva un altro 10% del capitale espresso in titoli privilegiati, che in caso di decisioni straordinarie avrebbero potuto fare la differenza. E' in questa fase che il Monte decide, e la Fondazione asseconda, l'acquisto di Antonveneta nel 2007, mettendo in piedi un'architettura finanziaria per sostenere l'operazione che, nel 2008, significherà per la banca un esborso di oltre 9 miliardi (attraverso un aumento di capitale di 5 e un prestito obbligazionario, il famigerato Fresh, per un altro miliardo) – il prezzo cash pagato a Santander per Antonveneta – più altri 7 miliardi serviti a sostituire l'esposizione del gruppo spagnolo nei confronti dell'istituto veneto.

L'affare Antonveneta, com'è noto, è all'origine dei guai (finanziari e giudiziari) che hanno travolto il Monte dei Paschi, ed è il buco nero dove la Fondazione Mps ha visto sparire completamente il proprio patrimonio, che nel 2007 sfiorava i 6 miliardi, in parte per l'esborso a sostegno della banca (4,5 miliardi, compreso l'aumento di capitale del 2011), in parte per la perdita di valore dei titoli Mps. Al termine di questo periodo, nel 2013, la Fondazione si è trovata indebitata per 600 milioni (posizione aperta, con il via libera del ministero dell'Economia, per partecipare pro quota all'aumento di capitale del 2011) e ha rischiato seriamente di scomparire. La svolta arriva con la nomina di Antonella Mansi al vertice dell'Ente di Palazzo Sansedoni, nel settembre di quell'anno.

La terza fase di questa storia inizia con l'impegno dell'imprenditrice maremmana, ex presidente degli industriali toscani e di Banca Federico Del Vecchio (e attuale vice presidente nazionale di Confindustria), che punta a salvare il salvabile, cominciando a ripristinare una dialettica di ruoli con Rocca Salimbeni, dove i vertici sono cambiati e dal 2012 siedono Alessandro Profumo (presidente) e Fabrizio Viola (amministratore delegato). Mentre l'accoppiata Profumo-Viola è impegnata a rimettere in navigazione il Monte, attraverso una riorganizzazione radicale, tagli ai costi (e al personale) e manovre sul capitale (5 miliardi di aumento nel 2014 e 3 miliardi nel 2015), la presidente Mansi chiama in Fondazione come direttore generale (provveditore) Enrico Granata, avvocato romano esperto di diritto bancario, con cui vara una politica di lacrime e sangue a livello di budget interno e una strategia di relazioni nazionali e internazionali per “fare cassa” vendendo almeno una parte dell'ultimo 30% di partecipazione in Mps (ridotta dopo alcune vendite sul mercato), dove è ancora bloccata la quasi totalità del patrimonio della Fondazione.

Quella che si gioca a cavallo tra la fine del 2013 e l'inizio del 2014 è una partita per la vita o la morte. Il Monte preme per varare subito un aumento di capitale importante (che poi sarà fatto a giugno del 2014), ma la Fondazione, che sarebbe stata spazzata via, si oppone e grazie al rinvio che ottiene riesce a mettersi in sicurezza, cedendo sul mercato e a investitori istituzionali il grosso della propria partecipazione in Mps. A marzo 2013, la Fondazione si ritrova con il 3,1% del Monte, di cui il 2,5% vincolato a un patto di sindacato con i fondi Fintech (4,5%) e Btg Pactual (2%), avendo incassato 750 milioni, buona parte dei quali servirono a rimborsare l'ultima parte di debito, e avendo così potuto recuperare un piccolo patrimonio liquido (450 milioni), oltre alla quota in Banca Mps, oggi ulteriormente limata all'1,49%.

Il Monte ha chiuso il bilancio semestrale di quest'anno con oltre 300 milioni di utile netto e guarda alle prossime mosse (vendita di 9,2 miliardi di Npl e aumento di capitale) come all'ultimo e definitivo atto per il rilancio. Nei pensieri dei vertici della banca, il presidente Massimo Tononi e l'amministratore delegato Viola, la Fondazione è solo un piccolo azionista. Da parte sua, l'Ente di Palazzo Sansedoni, oggi guidato dal presidente Marcello Clarich e dal direttore generale Davide Usai, ha tolto da pochi mesi il vincolo d'indirizzo che ne limitava le scelte in caso di operazioni straordinarie di Rocca Salimbeni, ma ha mantenuto l'obbligo di non alienare totalmente la partecipazione. E' dunque probabile che, alla fine, la Fondazione decida di non tagliare del tutto l'ultimo legame con la propria banca conferitaria. Per mantenere un ancoraggio al territorio al quale, dal 1996 al 2013 ha distribuito 2,2 miliardi di erogazioni (quest'anno appena 2,8 milioni). In ogni caso, la “normalizzazione” del sistema Montepaschi è un dato acquisito. Basti dire che dei protagonisti di quest'ultimo atto, Clarich Usai Tononi Viola, nessuno è senese. E neppure toscano.

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