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Shale oil, quell’ancora che tiene il greggio fermo tra 40 e 50 dollari

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L'Analisi|analisi

Shale oil, quell’ancora che tiene il greggio fermo tra 40 e 50 dollari

Per il petrolio l’orizzonte torna a farsi incerto: la domanda perde vigore e l’offerta non cala abbastanza. Ma il prezzo del barile potrebbero faticare a uscire dalla fascia tra 40 e 50 dollari, in cui da mesi sembra intrappolato.

A volte stupisce con rally strepitosi, poi torna a scendere con altrettanto slancio. Ma la volatilità del petrolio non deve ingannare. Da molto tempo in realtà il prezzo del barile non era tanto stabile: sono ormai sei mesi che il Wti non riesce a scendere sotto quota 40 dollari, né d’altra parte a risalire stabilmente sopra 50 dollari. Le oscillazioni quotidiane, in qualche caso anche molto ampie, di solito sono legate non tanto a eventi concreti, quanto alle mutevoli aspettative sulle prossime mosse della Federal Reserve (e ai conseguenti alti e bassi del dollaro), oppure alle dichiarazioni diffuse ad arte dall’Opec o dalla Russia.

Il petrolio è invischiato in una sorta di estenuante «fase laterale», come direbbero i trader. E molti investitori, grandi e piccoli, hanno imparato ad approfittarne, con rapide incursioni sul mercato dei future e volubili spostamenti dal fronte ribassista a quello rialzista: a fine luglio le statistiche della Cftc mostravano il maggior incremento di posizioni corte (alla vendita) nella storia da parte degli hedge funds, un mese dopo gli stessi fondi avevano operato una riduzione record. Ora le scommesse al ribasso stanno tornando a moltiplicarsi.

La spiegazione logica per questi movimenti - che peraltro contribuiscono a intrappolare i prezzi nella fascia tra 40 e 50 dollari - si chiama shale oil. Il petrolio che ha riproiettato gli Stati Uniti nell’empireo delle potenze energetiche è estremamente sensibile, se così si può dire, alle variazioni di prezzo: i pozzi arrivano a produzione con tempi e spese super-ridotti rispetto a quelli necessari nei giacimenti convenzionali. E a due anni dal crollo del petrolio il settore è riuscito a fare miracoli in termini di efficienza e taglio dei costi. Così, non appena il prezzo del barile punta verso 50 dollari, le trivelle tornano in funzione (anche se non è detto che poi tutte finiscano con l’estrarre idrocarburi). Non è solo un’aspettativa, ma un fatto dimostrato: i dati settimanali di Baker Hughes mostrano che il numero di impianti negli ultimi mesi è tornato a crescere, quasi senza sosta. Viceversa col petrolio sotto 40 dollari, il numero di trivelle diminuisce (o ci si attende che lo faccia).

Non è un problema da poco per l’Opec, che proprio a causa dello shale è stato costretto a ridimensionare notevolmente le sue aspirazioni sui prezzi: di recente molti ministri dell’Organizzazione (e anche la Russia) hanno detto di auspicare un ritorno del barile a 50-60 dollari, la metà rispetto agli obiettivi di un tempo. Qualcuno, come l’iraniano Bijan Zanganeh, ha anche spiegato che con prezzi più alti si incoraggerebbe solo la concorrenza.

Ma 50-60 dollari al barile (prezzo che peraltro farebbe contente anche le nostre major petrolifere) sono comunque una fascia molto più alta di quella attuale. E il “salto” minaccia di essere difficilissimo.

In uno studio appena pubblicato, Rystad Energy sostiene che lo shale oil ha subito i tagli maggiori nell’industria petrolifera: gli investimenti sono crollati del 66% dal 2014 a oggi (contro un taglio medio del 40% nel settore). Sarà tuttavia proprio sullo shale che i soldi torneranno più in fretta, prevede la società di consulenza: questi progetti non solo hanno ormai un breakeven di appena 50 $/barile, ma rispetto all’offshore ripagano l’investimento più in fretta (appena 4 anni col greggio a 70 $, invece di almeno un decennio) e con maggiore generosità: sempre col greggio a 70 $, il tasso interno di rendimento (Irr) è del 25%.

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