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Il paradosso di Wall Street ai massimi con crollo di Ipo

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L'Analisi|In primo piano

Il paradosso di Wall Street ai massimi con crollo di Ipo

Gli indici americani difendono le loro vette record, sollevati dalla decisione della Federal Reserve di telegrafare un possibile rialzo dei tassi non prima di dicembre. Dove il «forse», con un conto alla rovescia lungo quasi un trimestre, è d’obbligo. Ed è oltretutto accompagnato dal pronostico di un passo ancor più lento del precedente gradualismo nei futuri aumenti del costo del denaro. Ma un altro dato può - e dovrebbe - far riflettere sugli squilibri alle spalle di qualunque ottimismo, sui motivi di rischio e le ragioni di cautela: i collocamenti azionari iniziali, tradizionale meccanismo trasparente (quantomeno più trasparente di altri) per raccogliere capitali e farsi giudicare dal pubblico di investitori, languono. O meglio, precipitano: sono scivolati da gennaio a oggi ai minimi da oltre vent’anni a Wall Street.
Eppure l’abitudine detterebbe comportamenti e tendenze diverse. Che, cioè, le initial pubblic offering appassiscano in tempi aridi o burrascosi per le azioni e fioriscano con le primavere dei rialzi. Non è così, evidentemente, oggi, quando a coltivare i mercati in senso lato ci sono le banche centrali - e su tutte ancora la Fed. Quando politiche ultra-accomodanti hanno trasformato in fiumi in piena mille altri rivoli per irrigare di capitali i business. E quando forse le stesse aziende temono semmai continue delusioni economiche.

Per spiegare l’iscrizione delle Ipo nelle specie finanziarie al momento in pericolo d'estinzione, infatti, non basta certo addurre la spirale di volatilità azionaria. È recente, seguita a un’estate da calma piatta nelle oscillazioni degli indici con rari precedenti. Mentre contando e ricontando, cortesia del Wall Street Journal, sono sempre e solo 68 le imprese sbarcate a Wall Street nel corso del 2016, rastrellando 13,7 miliardi. Vale a dire meno della metà rispetto allo stesso periodo del 2015, quando all’appello si erano presentate 138 società con 27,3 miliardi raccolti, che già rappresentavano una flessione del 62% dal 2014.
Lontano dalla borsa e in angoli oscuri in passato riservati a start up alle prime armi oggi crescono in realtà giganti dalle valutazioni stratosferiche, che non hanno alcuna fretta o intenzione di quotarsi e sottoporsi a scrutinio pubblico: da Uber a AirBnB. È curioso paragonare tuttora a delle start up qualcosa che viene valutato decine e decine di miliardi di dollari e di conseguenza ha fatto ingresso nell'élite dei potenti della Corporate America.

La controprova di simili paradossi arriva anche dai conti di chi ha sempre fatto di tutto e di più per “muovere” collocamenti, le banche d'investimento. A sparire sono infatti anche le commissioni da vendite di pacchetti di azioni, iniziali o secondari, nei loro bilanci: da gennaio i re dell’alta finanza hanno racimolato la magra cifra di 3,7 miliardi a Wall Street. Mai così poco dal 1995 e se vogliamo considerare l’inflazione persino peggio: i 2,6 miliardi di allora ne varrebbero adesso 4,1 miliardi. Da che picco la caduta? Ai massimi del 2000 il valore era di 9,1 miliardi, pari a 12,7 odierni. Nel primo semestre dell'anno, tra colossi del calibro di JP Morgan, Goldman Sachs e Morgan Stanley, questo business un tempo centrale per la loro identità ha subito rovesci tra il 40 e il 60 per cento. Spesso devono rassegnarsi a racimolare quel che possono, con operazioni di cosiddetto «block trade», dove comprano a prezzo prestabilito e assumendosene il rischio titoli di società in seguito rivenduti cercando di guadagnare sulla differenza: il margine è però a sua volta più che dimezzato rispetto al passato, vicino in media al 2% rispetto al 4,9% dei collocamenti e al 7% delle Initial public offering. Pochi, forse, si rammaricano di pressioni sulle banche. Più preoccupante per tutti può invece essere il destino delle Ipo.

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