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L’Opec non è morta ma resta malata

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L'Analisi|analisi

L’Opec non è morta ma resta malata

L’Opec non è morta, come decretavano molti analisti. Ma di certo non ha recuperato la salute di un tempo, quando era un potentissimo cartello, capace di decidere le sorti del mercato petrolifero.

Il balzo del prezzo del barile alla notizia del ritrovato consenso nell’Organizzazione non deve trarre in inganno: quella di ieri è senza dubbio una grande vittoria per un gruppo che da anni non riusciva più a mettersi d’accordo su nulla.

L’Opec si è rimessa un po’ in forze. Soprattutto, ha imparato a compensare le sue debolezze con le armi del linguaggio, che ora utilizza molto bene - un po’ come fanno le banche centrali - per indirizzare i prezzi del greggio. Ma questa non è una vera e propria guarigione. L’Opec, benché non sia ancora morta, resta malata. Molto malata. Forse malata terminale.

A minarne la salute, in modo probabilmente irreversibile, ci sono almeno due fattori con cui fino a qualche anno fa non era ancora costretta a fare i conti. Il primo è lo shale oil: negli Stati Uniti è emerso un nuovo genere di produttore di petrolio, che ha dimostrato di essere molto più resistente del previsto ai prezzi bassi e che tecnicamente è in grado di riaccelerare in tempi brevi le estrazioni a un’eventuale risalita del prezzo del barile. L’altro fattore con cui l’Opec deve fare i conti - ancora più difficile da combattere rispetto allo shale oil - è la spinta, ormai ineludibile, verso il superamento dei combustibili fossili.

Un mondo «carbon free» è ancora un traguardo lontano. Ma il consumo di petrolio nei paesi industrializzati ha già raggiunto un picco e anche le economie in via di sviluppo non riusciranno a sostenere per sempre ai ritmi attuali la crescita della domanda.

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