«La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni». Chissà se (il tedesco) Karl Marx, al quale viene attribuito questo noto aforisma, userebbe oggi le stesse parole per commentare la crisi che ha colpito le banche europee. A partire dalla tedesca Deutsche Bank. Di certo potrebbe: perché gran parte di questa crisi è dovuta ai problemi strutturali e mai risolti di molti istituti creditizi, ma una parte è anche legata alla normativa sul bail-in entrata in vigore proprio quest’anno. Non sarà un caso se le banche americane da gennaio abbiano perso in Borsa il 6,44%, contro il 23% di quelle europee, il 43% di quelle tedesche e il 50% di quelle italiane: la normativa che ha introdotto il bail-in, nata sotto le migliori intenzioni come direbbe Marx, si è infatti trasformata in un elemento di incertezza aggiuntivo in un’Europa che già ha banche troppo deboli. Che già ha troppi problemi irrisolti.
Che le intenzioni del bail-in (la normativa che prevede che a salvare una banca in crisi siano prima gli investitori privati e solo successivamente lo Stato) fossero ottime, è fuori dubbio: era immorale che i contribuenti salvassero con i soldi della collettività le banche in crisi; era ingiusto che gli Stati forti potessero aiutare le proprie banche, aumentando il divario competitivo con il sistema creditizio dei Paesi più deboli; era sbagliato che gli amministratori delegati delle banche prendessero tanti rischi, consapevoli che i profitti sarebbero andati ai loro azionisti mentre le perdite sarebbero cadute sulle spalle dello Stato. Le intenzioni del bail-in non solo erano buone, ma ottime. Eppure le modalità e i tempi con cui sono state applicate rischiano di aver messo le banche europee, per tornare alla metafora, sulla via dell’inferno.
Il primo motivo è ovvio: la paura che un’eventuale crisi della propria banca possa intaccare le azioni, le obbligazioni e forse - anche se è molto improbabile - i conti correnti sopra i 100mila euro, rischia di dare il colpo finale alle banche più deboli. Se un istituto ha qualche problema, ma potrebbe risolverlo, la fuga dei depositi o anche solo dalle azioni gli darebbe il colpo definitivo. Il bail-in, pur con tutte le sue ottime intenzioni, diventa dunque potenzialmente un acceleratore delle crisi. Anche perché la garanzia europea sui depositi fino a 100mila euro, essenziale per ripristinare la fiducia dei correntisti, non è mai partita. Ecco perché c’è chi pensa che andrebbero rafforzate, nella normativa, le possibilità di interventi preventivi: proprio per evitare le crisi prima che scoppino e che creino il panico.
Il secondo motivo è legato alle eccezioni. La stessa normativa del bail-in (la direttiva Brrd) prevede che «in condizioni eccezionali», cioè se la crisi di una banca dovesse provocare «un ampio contagio», alcune tipologie di titoli possono essere escluse dal bail-in. Se si guarda a Deutsche Bank (ovviamente in via del tutto ipotetica), si può dare quasi per scontato che una banca così grande e sistemica rientrerebbe nelle «condizioni eccezionali». Dunque gli investitori potrebbero avere forme di protezione aggiuntive. Ma in altri casi come (anche qui per fare un’ipotesi teorica) quello del Montepaschi? È possibile invocare le «condizioni eccezionali» anche per una banca come Mps, che da sola rappresenta il 7% dei depositi in Italia e il 13% degli attivi nazionali totali? Nessuno lo sa, perché le «condizioni eccezionali» vengono verificate caso per caso dalle autorità di risoluzione. Dunque l’incertezza permane.
Per non parlare della modalità, spesso scoordinate, con cui ogni Stato ha recepito al suo interno la direttiva sul bail-in. Ogni Paese ha cercato di creare le condizioni per proteggere alcune tipologie di investitori. In Germania la legge fallimentare protegge maggiormente dal bail-in le controparti dei derivati. In Spagna e Francia sono state create nuove tipologie di titoli da aggredire in caso di bail-in, per proteggerne altre. Ogni Paese è andato in ordine sparso, sfruttando la flessibilità data dalla normativa. L’Italia non ha però fatto molto per proteggere davvero l’unica classe debole: i risparmiatori che detengono bond subordinati acquistati prima della direttiva Ue.
Ecco perché sarebbe utile mantenere le buone intenzioni della normativa europea, riducendo però gli effetti collaterali non voluti.
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