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L’Opec non ha ancora tagliato, ma ha già fatto un regalo allo…

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L’Opec non ha ancora tagliato, ma ha già fatto un regalo allo shale oil

Il taglio di produzione deciso dall’Opec potrebbe anche non tradursi mai in realtà. Eppure ha già avuto l’effetto di ridare ossigeno al principale avversario del gruppo: lo shale oil americano.

Non c’è ancora, ovviamente, un vero e proprio rilancio degli investimenti, che secondo gli analisti richiede che il petrolio si stabilizzi ad almeno 55-60 dollari al barile. Ma la recente fiammata dei prezzi ha già rifornito di denaro un gran numero di frackers, da un lato risollevandone azioni e obbligazioni e dall’altro offrendo una ghiotta opportunità per operazioni di hedging, con cui vendere in anticipo la produzione a prezzi capaci di garantire un profitto.

Dopo il vertice di Algeri di mercoledì scorso le quotazioni del petrolio sono salite di quasi il 10%, superando 51 dollari al barile nel caso del Brent. Rispetto ai minimi di luglio il rialzo - alimentato in gran parte dalle voci sull’imminenza di un intervento Opec - è addirittura di oltre il 20 per cento.

Troppo presto per dire se durerà: il rally rischia anzi di sgonfiarsi in modo precipitoso se alle parole non seguiranno i fatti, com’è ben possibile visto che l’Organizzazione ha rinviato al 30 novembre la ripartizione dei sacrifici tra i paesi membri e visto che l’Iraq ha già protestato vivacemente contro l’impiego (accettato a quanto pare persino dall’Iran) di stime di produzione indipendenti come base per calcolare i tagli.

Il prezzo del barile potrebbe insomma non riuscire a mantenersi a lungo sopra 50 dollari. Ma intanto l’Opec ha già fatto un bel regalo agli operatori dello shale oil e, al tempo stesso, ha forse gettato i semi per una nuova fase di debolezza sui mercati petroliferi: un recupero della produzione non Opec potrebbe vanificare del tutto i sacrifici del cartello, prolungando ulteriormente - o addirittura ampliando - il surplus di offerta che da oltre due anni deprime il prezzo del barile.

I frackers a dire il vero si sono rimessi in moto prima dell’Opec: il numero di trivelle in funzione negli Stati Uniti, dopo essersi ridotto dell’80% in meno di due anni, ha ripreso a salire senza interruzioni dalla fine di maggio. Da allora sono stati riavviati oltre cento impianti per la ricerca di greggio, con una frenesia simile a quella dei tempi d’oro dello shale. Il fenomeno getta le basi per una potenziale ripresa della produzione di petrolio, dopo che questa è calata di oltre un milione di barili al giorno (a 8,5 mbg). E c’è il rischio di un’accelerazione, se il barile continua ad apprezzarsi.

Il mercato dei capitali del resto non ha mai fatto mancare il sostegno allo shale. Nonostante i bilanci disastrati e le valutazioni sul credito a livello spazzatura, le società petrolifere indipendenti Usa tra l’inizio del 2015 e la primavera scorsa sono riuscite a raccogliere altri 50 miliardi di dollari con l’emissione di bond , calcola Sanford C.Bernstein. Nello stesso periodo hanno emesso azioni per oltre 40 miliardi, che in questi giorni grazie all’Opec hanno registrato rialzi stratosferici.

Il rally potrebbe presto sfumare. Ma per mettere il fieno in cascina, proteggendo i flussi di cassa futuri, c’è l’hedging: sul mercato dei future, sempre grazie all’Opec, il prezzo medio del Wti nel 2017 (il cosiddetto calendar strip) si è riportato oltre 50 dollari. E le banche segnalano una forte ripresa delle vendite a termine da parte dei produttori.

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