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Perché in Borsa è meglio non fidarsi troppo del rapporto…

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indicatori di mercato

Perché in Borsa è meglio non fidarsi troppo del rapporto prezzo/utili

Il rapporto prezzo-utili, il famoso p/e (dall’inglese price-earning ratio) è uno degli indicatori più utilizzati per cercare di capire se le Borse sono “troppo care” (e quindi destinate prima o poi a cadere) o “a buon mercato” (e quindi in prospettiva pronte a salire). Si tratta del rapporto fra il prezzo corrente e l’utile atteso per ogni azione.

Ma dobbiamo fidarci ciecamente di questo multiplo? Sicuramente no, spiega dalle colonne del FT Miles Johnson, che ricorda come nella primavera del 2009, in presenza dei minimi storici dopo il crollo post Lehman, gli operatori si siano trovati davanti al dilemma se comprare o no. Acquistare per esempio lo S&P500 il 9 marzo 2009, giorno in cui toccò i minimi dal settembre 2006 a quota 676 punti, avrebbe significato triplicare il proprio capitale. Il “colpo” borsistico di una vita.

Alcuni operatori però decisero di non rientrare sul mercato, giustificando la loro scelta proprio in base al rapporto p/e, che all’epoca sull’indice S&P500 quotava 20 volte e quindi appariva costoso: probabilmente, pensarono gli operatori, troveremo i veri minimi molto più in basso.

Spesso infatti il p/e viene considerato non per una singola azione, ma per un ampio paniere come l’indice Ftse-Mib in Italia o lo S&P500 negli Stati Uniti. Il problema, spiega Johnson, è proprio quando si cerca di capire dove andranno i mercati considerando il rapporto prezzo-utili degli indici. I quali indici hanno un rapporto prezzo-utili calcolato sulla media di ciascuna azienda che li compone senza considerare il “peso” delle singole aziende. Un dollaro di utile di Apple, la regina dell'indice, viene considerato come un dollaro di utile della sconosciuta Murphy Oil.

Facciamo un esempio per capire meglio, sempre sullo S&P500. Apple “pesa” sull’indice per il 3,4%, il che significa che se investo 100 dollari nello S&P500 indirettamente posseggo 3,4 dollari di azioni della Mela. Bene: gli utili di Apple, negli ultimi dodici mesi, sono stati pari a 47 miliardi di dollari. Le perdite delle quattro peggiori aziende dell’indice (Apache, Devon Energy, Freeport-McMoRan e Chesapeake Energy) sono a un livello simile, intorno a 48,3 miliardi. La grande differenza è che Apple “pesa” come capitalizzazione per il 3,4% dello S&P500, mentre le quattro aziende in rosso rappresentano solo lo 0,023% dell'indice. Ma ai fini del calcolo del p/e sull'indice, utili e perdite di Apple o di Devon Energy hanno esattamente lo stesso peso, come se le due aziende avessero la stessa capitalizzazione.

Ecco spiegato perché in quella primavera del 2009 il rapporto p/e dell’indice S&P500 sembrava così caro: perché è vero che ben ottanta aziende del paniere avevano cumulato 240 miliardi di dollari complessivi di perdite, ma non si era tenuto conto che queste ottanta aziende pesavano solo per il 6% sulla capitalizzazione dell’indice. Questo indusse, secondo l’analisi di Johnson, alcuni operatori a non comprare: lo S&P500 era ancora troppo caro, pensavano, e presto torneremo a scendere vedendo nuovi minimi. Quegli operatori persero così la prima fermata del treno di uno dei più clamorosi rialzi borsistici degli ultimi vent’anni.

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