Finanza & Mercati

Il vero «peso» del rischio Italia

  • Abbonati
  • Accedi
L'Analisi|titoli di stato

Il vero «peso» del rischio Italia

Cento punti base, un rendimento praticamente raddoppiato che passa da poco più dell’1% a oltre il 2% i n appena tre mesi. Per spiegare un movimento così rilevante del rendimento del BTp decennale non basta una sola causa, ne servono almeno tre: tante sono infatti le forze che stanno dietro a una ripresa dei tassi dei titoli di Stato italiani che potrà piacere al risparmiatore di domani, ma che rende anche più oneroso il conto per il Tesoro.

È infatti evidente che il rialzo dei BTp va inserito in un contesto globale in cui tutti i rendimenti stanno crescendo, in particolare sulle scadenze lunghe. Il mondo intero appare convinto di essere rientrato in una nuova fase di inflazione dopo anni in cui era piuttosto il fenomeno opposto a spaventare: così si spiegano le attese per un atteggiamento più restrittivo (o meno espansivo) da parte delle Banche centrali e quindi anche i riflessi che vediamo sull’obbligazionario. L’elezione di Donald Trump, il cui programma elettorale per rilanciare l’economia punta essenzialmente su una politica fiscale espansiva destinata però anche a creare più debito e maggiore inflazione, non ha in fondo fatto altro che accentuare una tendenza già in atto da qualche settimana.

Il fatto che nell’Eurozona l’avanzata dell’inflazione non sia poi così pronunciata da spaventare già i banchieri centrali (e il tasso resti anzi bloccato allo 0,8% quando si escludano le componenti più volatili come i prezzi dei combustibili) non sembra del resto frenare gli investitori. Si stanno infatti vendendo tutti i titoli dell’area come se fossero i Treasury americani oppure i Gilt britannici, sui quali grava l’insidia dell’inflazione importata a causa della svalutazione della sterlina post-Brexit. Così anche il rendimento decennale tedesco, tanto per fare un esempio, è salito allo 0,31% quando il 12 agosto (cioè il giorno in cui l’Italia ha raggiunto il minimo storico a 1,05%) viaggiava a -0,10 per cento: questi circa 40 punti base possono essere teoricamente considerati il prezzo che anche i BTp hanno dovuto pagare al ritorno del rischio inflazione sugli schermi dei trader a livello globale.

C’è però un altro argomento che interessa in maniera più specifica l’Eurozona, ovvero i dubbi del mercato sulla durata e anche in parte sull’efficacia del quantitative easing della Bce, sollevati dalle indiscrezioni su un possibile tapering (cioè una riduzione progressiva del ritmo di riacquisti di attività pubbliche e private già nel corso della prima metà del 2017) e mai del tutto sopiti dalle smentite dei diretti interessati. Il rientro dalla politica ultra-espansiva della Bce sarà infatti graduale, come ha ricordato lo stesso presidente Mario Draghi, e non è detto che inizi subito il prossimo marzo, anzi.

Il tema della capacità delle politiche monetarie resta però ben presente fra gli investitori, prova ne sia che l’inversione di tendenza sui tassi a livello globale risale in fondo alla decisione con cui a metà settembre la Banca centrale del Giappone ha cambiato obiettivo e dichiarato di voler tenere sotto controllo i rendimenti decennali nipponici: una svolta, per certi versi, che da molti è stata letta come un’indiretta ammissione della scarsa efficacia delle misure messe in atto fino a quel momento.

Quest’ultimo elemento, insieme ad altri fattori, ha contribuito fra l’altro ad allargare leggermente gli spread dei Paesi periferici d’Europa. Lo dimostra il rendimento del Bono spagnolo, che da metà agosto tempo è aumentato dallo 0,93% all’1,49 per cento: sono circa quindici punti base in più rispetto al Bund tedesco, che si possono in linea di massima attribuire a una sorta di crescente avversione al rischio penalizzante per i titoli «periferia».

Fin qui l’Italia non ha fatto altro che «ereditare» le tendenze in atto altrove nel mondo e in Europa, ma è innegabile che il nostro Paese abbia messo del suo per «aiutare» le vendite sui titoli di Stato e provocare il raddoppio dei tassi decennali da metà agosto. È infatti evidente che l’incertezza che circonda l’esito del referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre stia condizionando le scelte degli investitori esteri per le ripercussioni che un voto negativo potrebbe avere sul governo Renzi e sul proseguimento del cammino di quelle riforme che nei mesi precedenti avevano convinto a puntare di nuovo sul nostro Paese.

La differenza che ci separa dalla Spagna, il nostro alter ego nella periferia d’Europa, può aiutare a calcolare questo effetto. Gli appena 12 punti base di spread sui decennali a metà agosto sono diventati ieri 54: poco più di 40 centesimi che si possono a buon diritto addebitare allo specifico «rischio Italia». Si potrà obiettare che, avendo nel frattempo pur con grande fatica Madrid trovato alla fine un Governo, questo allargamento dello spread BTp-Bonos non sia tutto attribuibile al demerito di Roma. Quando però si pensa che nel luglio 2015 il differenziale dei rendimenti fra il nostro decennale e il Bund tedesco viaggiava attorno quota 130, ovvero poco più di 40 punti in meno rispetto ai valori di ieri, si giunge a un risultato analogo: il prezzo da pagare in termini di rendimenti a questa sorta di «rischio politico».

© Riproduzione riservata