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Bpm-Banco popolare, le ragioni che hanno spinto le nozze

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IL FOCUS

Bpm-Banco popolare, le ragioni che hanno spinto le nozze

Per poter capire quello che è successo nella fusione tra Bpme Banco è necessario sapere i motivi che hanno spinto la banca milanese e quella veronese a unire le forze. Il Consigliere delegato Giuseppe Castagna ce lo ha spiegato così: «A spingerci è stata innanzitutto la necessità di fare consolidamento. Servono dimensioni per gli investimenti digitali e per offrire alla clientela prodotti sempre migliori. Ci sembrava che quella del decreto Renzi fosse un'occasione buona. Abbiamo guardato con chi fare questo cammino e il progetto industriale migliore era quello con il Banco. Ci siamo sottoposti a una serie di verifiche, anche con Bce, e quando sono usciti i numeri giusti, abbiamo pensato quella fosse l'operazione da fare. I punti di forza della nuova banca saranno: una copertura geografica in Regioni molto ricche, sia in termini di individui sia di imprese, la possibilità di specializzarci nell'asset management, nel corporate e nell'investment banking, e la presenza di fabbriche-prodotto non solo complete ma anche detenute, e quindi con la possibilità di tenere tutta la creazione di valore all'interno della banca».

Ma c’era anche un altro motivo per il consolidamento: essendo una banca sana ma piccola, in seguito alla riforma che imponeva la trasformazione da cooperativa in Spa, Bpm sarebbe potuto essere preda di un'acquisizione non desiderata. Una fusione con una banca più grande avrebbe reso il boccone meno facilmente digeribile.

I potenziali candidati per Bpm erano Ubi, Banca popolare dell'Emilia Romagna, e Banco. Ma il cinquantasettenne Castagna cercava chiaramente un’unione alla pari o, ancor meglio, voleva comandare lui. Sia Victor Massiah, Ad di Ubi, sia Alessandro Vandelli, Ad di Bper, gli hanno subito fatto capire che i rispettivi istituti puntavano a essere soggetti aggreganti. Nessuno dei due gli avrebbe quindi ceduto il timone. Con il Banco del settantaquattrenne Pierfrancesco Saviotti si sarebbe invece potuta trovare la quadra.

Oberato dal peso dei suoi Npl, oltre 25 miliardi, Saviotti aveva infatti capito la scarsa sostenibilità del suo modello di business e quindi la mancanza di prospettive di redditività. Ed era dunque anche lui alla ricerca di un partner. Che ovviamente sarebbe dovuto essere in condizioni migliori, ma non troppo forte. Altrimenti non avrebbe potuto chiedergli un matrimonio alla pari o, ancor meglio, in veste di banca aggregante (come è stato). Per un periodo è stato aperto un confronto con Ubi. Ma a Bergamo avrebbero voluto farla da padroni. Saviotti ha dunque ripiegato su Bpm, la quale aveva il duplice vantaggio di essere più sana (quindi d'aiuto) e più piccola (quindi potenzialmente subalterna).

Con la Bpm, il Banco avrebbe potuto essere il soggetto aggregante e Castagna occupare la poltrona di Ad della nuova banca.

Da parte sua non si può certo dire che il mercato abbia però apprezzato. Lo dimostrano gli andamenti dei rispettivi titoli. Il 23 marzo 2016, prima dell'annuncio del protocollo d’Intesa, un'azione del Banco valeva 7,28 euro e quello della Bpm valeva 0,71. Da allora il titolo del Banco ha perso quasi il 75% e quello di Bpm quasi il 60 (la banca più problematica del momento, Montepaschi, ha perso il 63).

Ma se il mercato ha risposto così male, come mai i fondi d'investimento che controllano la gran parte dei titoli di Bpm non hanno in alcun modo alzato la voce contro la fusione? Certamente avrebbero avuto il know-how per fare valutazioni autonome. Una possibile risposta viene dal fatto che, secondo dati fornitici da Morningstar Italy, le stesse cinque famiglie di fondi che a fine 2015 avevano oltre 211 milioni in titoli Bpm - Dfa International, Vanguard, Eurizon, Mediolanum Flessibile, BlackRock - ne avevano 155 in quelli del Banco. In altre parole, potrebbero aver concluso che gli svantaggi per Bpm sarebbero stati compensati dai vantaggi per il Banco.

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