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I nodi irrisolti che pesano sulle banche a Piazza Affari

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L'Analisi|l’analisi

I nodi irrisolti che pesano sulle banche a Piazza Affari

Direbbe Nanni Moretti: «Facciamoci del male da soli». Perché una buona parte della bufera borsistica che continua a colpire le banche italiane è un misto di masochismo, di perseveranza negli errori e di incapacità collettiva di risolvere i problemi. Se l’indice di Piazza Affari del settore bancario perde il 6,88% dal giorno delle elezioni americane (mentre quasi tutti gli altri indici bancari da quella data sono saliti), il 13,91% dal giorno di Brexit (in controtendenza con il resto d’Europa), e quasi il 50% da inizio anno, è anche per questo: i problemi delle banche italiane continuano a ristagnare. E le soluzioni adottate spesso sono inadeguate. O, addirittura, controproducenti.

Il problema principale, che riguarda tutte, è quello dei crediti in sofferenza: quella montagna da 199 miliardi di euro lordi, attualmente svalutati nei bilanci - secondo Bankitalia - a 85 miliardi netti. Questo significa che i crediti andati a male sono oggi iscritti nei bilanci delle banche al 42,7% del loro valore originario. Se si guarda alla probabilità di recupero di questi crediti, si scopre che questo valore di bilancio è statisticamente corretto: negli ultimi 4 anni il recupero medio dei crediti in sofferenza è stato infatti intorno al 41%. Non dovrebbero dunque essere necessarie ulteriori svalutazioni, che comporterebbero perdite nei bilanci delle banche. Eppure è da un anno - da quando Banca Marche, CariFerrara, CariChieti e Popolare Etruria sono state costrette a svalutare le sofferenze al 20% - che a Piazza Affari c’è la sensazione che le Autorità di vigilanza vogliano applicare a tutte le banche la stessa cura da cavallo: cioè spingerle a svalutare ulteriormente i crediti andati a male.

Sebbene queste impressioni siano sempre state smentite ufficialmente, nella realtà dei fatti non c’è occasione in cui non vengano confermate. È indiscrezione di questi giorni (l’ha lanciata il Sole 24 Ore senza avere smentite) che UniCredit intenda svalutare i propri crediti in sofferenza fino al 25%, dall’attuale 38,1%: questo comporterebbe accantonamenti per 7-8 miliardi. L’operazione di cessione di sofferenze di Mps avviene al 33% del valore lordo dei crediti, ma (considerando la struttura dell’operazione), nella realtà il prezzo che il mercato paga è intorno al 27%. La sensazione di tutti, insomma, è che la Vigilanza stia premendo per favorire ulteriori svalutazioni e per portare gli accantonamenti sempre più vicini ai livelli dei quattro istituti salvati un anno fa. Ecco perché la Borsa si preoccupa: perché in tal caso le perdite per le banche italiane sarebbero ancora ingenti. E, forse, anche eccessive. In realtà di proposte tecniche per aggirare questo circolo vizioso ce ne sarebbero molte. Lo stesso Governo ha varato molte riforme che - seppur parzialmente - cercano di favorire lo smaltimento dei rifiuti bancari. Ma, sotto il vaglio severo di un’Europa più attenta ad evitare anche indiretti aiuti di Stato che a permettere la risoluzione del problema, tutto questo non basta. Nessuno riesce a prendere il toro per le corna, e a risolvere il problema senza terrorizzare il mercato.

A pesare sulle banche in Borsa ci sono poi i singoli casi concreti, ormai sempre più agli onori delle cronache. La vicenda Mps, le cui fortune sono anche appese agli umori degli investitori post-referendum, rappresenta un elemento di enorme incertezza sull’intero settore in Borsa: per andare in porto il piano di ristrutturazione è necessario che un numero sufficiente di investitori accetti la conversione dei bond subordinarti, che si trovi un «anchor investor» che sottoscriva una parte cospicua dell’aumento di capitale e che la cessione di 27 miliardi di Npl vada in porto. Tre condizioni tutte impegnative. A pesare sul mercato ci sono poi gli aumenti di capitale di UniCredit (si ipotizza fino a 13 miliardi), probabilmente di Veneto Banca e Popolare di Vicenza (ieri il numero uno di Atlante Alessandro Penati l’ha definito un passaggio «ovvio»), forse di Carige (non è nell’aria ma non è nemmeno da escludere) ed eventualmente di Ubi (se dovesse andare in porto l’acquisto delle good bank).

C’è poi la questione dei titoli di Stato italiani, che ammontano nei bilanci delle banche a 394 miliardi (dato Bankitalia di settembre): ora che i rendimenti salgono e i prezzi scendono, le banche rischiano di incassare perdite. L’impatto sui loro bilanci dipende da dove i titoli sono contabilizzati, ma ugualmente un po’ di perdite sui titoli di Stato potrebbero farsi sentire presto. Tutto questo con un mercato sempre più in tensione per via del referendum costituzionale del 4 dicembre. Ma preoccupano - in prospettiva - anche i nuovi adempimenti regolamentari in arrivo, che potrebbero imporre ulteriori necessità di aumenti di capitale: solo la riforma di Basilea 4, secondo i calcoli dell’Abi, potrebbe in Europa provocare necessità di rafforzamenti patrimoniali pari a 5-600 miliardi. E anche il pacchetto legislativo approvato ieri dalla Commissione europea, pur nei suoi intenti positivi, potrebbe portare ad un ulteriore inasprimento delle richieste di capitale per le banche. Come se non bastasse la carne già sul fuoco. Se la Borsa picchia duro il credito italiano, insomma, i motivi ci sono. Probabilmente la speculazione esagera, ma non inventa nulla.

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