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La partita degli hedge sulla conversione

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l’offerta per i bond subordinati

La partita degli hedge sulla conversione

(Ansa)
(Ansa)

La partita sulla conversione dei bond Mps se la giocheranno gli hedge fund o comunque investitori professionali in grado di valutare i rischi di un’operazione che, nella sua complessità, presenta ancora molte incognite. Il retail, inteso come insieme di piccoli risparmiatori, è presente in realtà solo sul prestito obbligazionario più consistente da 2,06 miliardi (sui 4,28 miliardi di emissioni complessivamente interessate dalla proposta di conversione): il subordinato Upper tier II 2008 -2018. Sebbene venga proposta la conversione al valore nominale di cento, il rischio dell’operazione mal si concilia con il profilo di rischio dei 37mila piccoli sottoscrittori originari. Per il semplice fatto che si passerebbe a un investimento azionario e oltretutto in un contesto nel quale non si possono fornire garanzie sulle chance prospettiche di “tenuta” dell’azione.

In altre parole, non si potrebbe contare sulla sollecitazione attiva del retail a favore della conversione da parte della banca incaricata (la stessa Mps), anche se questo aspetto sarà meglio chiarito nel prospetto informativo che la Consob dovrebbe approvare nel week-end, prima comunque della partenza dell’offerta calendarizzata per lunedì. Fermo restando che chi fosse convinto a raccogliere l’offerta potrebbe sgravare la banca dalle responsabilità e aderire comunque, l’alternativa più consona al piccolo risparmiatore è tra vendere il bond sul mercato, riportando una perdita, ma chiudendo l’esposizione al rischio, oppure aspettare il rimborso a scadenza sperando che la ricapitalizzazione vada in porto così come congegnata con la regia di JP Morgan e Mediobanca.

Questo perchè la conversione dei bond è solo un tassello del puzzle che deve ricomporsi nella sua interezza, con l’adesione di uno o più anchor investor e con la sottoscrizione dell’aumento di capitale per la parte necessaria a centrare l’obiettivo di una ricapitalizzazione complessiva da 5 miliardi. Se solo uno di questi tasselli venisse meno si aprirebbe uno scenario differente, dai contorni non ancora definiti, che comunque non potrebbe prescindere da una formula di burden sharing, dove a farne le spese in primo luogo sarebbero gli azionisti e gli obbligazionisti subordinati, i meno “protetti”. Molti risparmiatori, in effetti, pare abbiano già scelto di uscire dalla partita, visto che il bond in mano al retail ha sofferto negli ultimi giorni di un’ondata di vendite che ha fatto scendere le quotazioni anche sotto 60.

Per il taglio minimo elevato e per le altre caratteristiche delle emissioni, sugli altri prestiti obbligazionari non dovrebbe esserci invece la componente retail. Difficile tuttavia ricostruire l’anagrafe, con nomi e cognomi, di chi detiene oggi i titoli in portafoglio. Le banche del consorzio stanno contattando in questi giorni i fondi dal profilo più attivo che potrebbero aver fatto la scommessa su Mps, ma certezze sugli effettivi quantitativi detenuti non ce ne sono, se non per un paio di investitori. Il primo è Generali che ha una posizione intorno ai 400 milioni su un’emissione che, nell’ambito dell’offerta di conversione, sarà rimborsata a cento. Le recenti dichiarazioni del ceo del Leone, Philippe Donnet, di voler contribuire a una soluzione positiva del caso Mps lasciano immaginare che l’adesione alla conversione sarà per l’intero quantitativo in portafoglio, anche se la decisione deve essere ancora presa dal board. Generali comunque, a quanto risulta, è l’unico investitore istituzionale long che ha un’esposizione di peso sui bond subordinati di Mps.

Il secondo nome è quello del fondo londinese Attestor Capital che è posizionato però sul bond “Fresh”. Un prestito particolare quest’ultimo - un perpetuo convertibile strutturato nel 2003 da JP Morgan - per il quale sono ancora in corso verifiche di ammissibilità all’offerta, considerato che non è stato emesso da Mps ma da un terzo soggetto. Ad ogni modo, per una serie di tecnicalità, l’importo effettivamente convertibile sarebbe compreso tra 230 e 280 milioni, mentre il prezzo di 23,6 indicato nella documentazione per l’assemblea è riferito a una stima conservativa del passato e probabilmente non sarà quello effettivo di conversione se l’emissione sarà ricompresa nell’offerta.

Indipendentemente da chi abbia o meno effettivamente in mano i titoli, l’identikit di chi si è mosso sui bond Mps è quello di un investitore “attivo”, abituato a scommettere su operazioni rischiose, ma ad alto ritorno in caso di successo. Tipicamente questo tipo di investitore usa diversificare il rischio. Ci si aspetta perciò che i fondi speculativi apportino all’offerta di conversione solo una parte dei bond in portafoglio e ne mantengano invece un’altra parte, probabilmente quella più prossima a scadenza, da rivendere sul mercato quando le quotazioni si avvicineranno al valore nominale. Anche il semplice calcolo di come ripartire il pacchetto è di per sè un azzardo, perchè se le adesioni alla conversione fossero ritenute insufficienti dalle banche che coordinano la ricapitalizzazione di Mps (una soglia quantitativa non è stata fissata), l’intera operazione salterebbe e le quotazioni dei bond sarebbero destinate a scendere, vanificando per lo meno il “premio” implicito nella differenza tra il prezzo di ingresso nella posizione e quello proposto per la conversione “volontaria”.

Se invece l’operazione andrà in porto è da mettere in conto che gli hedge realizzeranno i profitti vendendo sul mercato le azioni Mps che, per un certo periodo, subiranno perciò una pressione verso il basso anche una volta completata positivamente la ricapitalizzazione da 5 miliardi. È stata scartata l’ipotesi di introdurre una clausola di lock-up (l’impegno a mantenere le azioni in portafoglio per un certo periodo), dato che altrimenti gli hedge fund non aderirebbero alla conversione. Su tutto pende l’incognita del referendum costituzionale. Le banche del consorzio, che da mesi stanno tastando il polso del mercato, sono convinte che con la vittoria del sì tutto si sistemerebbe. Se prevalesse invece il no, il risultato sarebbe da valutare. Il no non sarebbe un ostacolo in assoluto al completamento dell’operazione in presenza di una stabilità del contesto politico-governativo, anche se la strada non sarebbe tutta in discesa.

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