Dall’esito del referendum costituzionale si è materializzato per Mps lo scenario peggiore: il no secco alla riforma e la caduta conseguente del Governo Renzi. Ma prima di fasciarsi la testa, il consorzio bancario guidato da Jp Morgan e Mediobanca che tira le fila dell’operazione ha deciso di prendere tempo. Qualche giorno per capire se la stabilità del contesto politico è del tutto compromessa o se invece possono esserci le condizioni, nonostante tutto, per andare avanti con quella che sempre più sembra essere diventata una mission impossible.
La strada è sicuramente in salita. La conversione volontaria dei bond subordinati, in teoria, era la parte più facile perchè consentiva a una fetta di investitori di entrare “a sconto” sul successivo aumento di capitale. Chi ha preso posizione più recentemente sulle obbligazioni del Montepaschi è entrato a prezzi di molto inferiori ai prezzi proposti per la conversione in nuove azioni. L’entità dello “sconto” dipende dal biglietto d’ingresso, ma a partire la luglio ci sarebbero stati margini di sconto fino al 65-68% sulle tre emissioni convertite a 85 e dal 35% al 55% su quelle convertite a 100.
Dalla conversione però è arrivato solo poco più di un miliardo. Ciò significa che i restanti 4 miliardi dovrebbero essere reperiti a prezzo “pieno”. Per legge, infatti, anche l’ipotetico anchor investor, pur dovendo impegnarsi nel medio-lungo periodo per una cifra importante, dovrebbe sottoscrivere l’aumento di capitale alle stesse condizioni del mercato e senza poter beneficiare di “sconti”. Se al referendum fosse prevalso il sì, tutti erano convinti che l’operazione sarebbe andata in porto. Ma così non è stato e il quadro si è ulteriormente complicato. A partire dall’interesse del Qia che, per concretizzarsi, era subordinato a una serie di condizioni, una delle quali - a quanto risulta - legata alla volatilità di mercato dopo l’esito del voto. Le azioni Mps ieri sono finite sulle montagne russe, per poi chiudere in calo del 4,21% a 18,68 euro. Dall’anchor investor sarebbe dovuto arrivare da 1 miliardo a 1 miliardo e mezzo.
Se non si riuscirà a portare avanti l’opzione A, dunque, la B passa dalla conversione obbligatoria dei bond subordinati per tutti i 4 miliardi che erano stati oggetto dell’offerta volontaria e dall’intervento dello Stato per il miliardo restante ad arrivare ai 5 miliardi previsti (come anticipato da Il Sole 24 Ore del 18 novembre). Non è l’optimum e qualche conseguenza sul mercato dei bond bancari l’avrà ma, Bce e Ue permettendo (i contatti a riguardo sono stati avviati ieri), è sempre meglio del bail-in applicato alle quattro banche - Etruria & C. - finite in dissesto un anno fa, che ha azzerato oltre che il valore del capitale azionario anche quello delle obbligazioni. Alternative, a quanto risulta, non ce ne sono. Nel caso, bisognerà vedere come se ne uscirà col retail, al quale, in ottemperanza della Mifid, è stato sostanzialmente inibito l’accesso alla conversione volontaria.
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