C’è una Trumpflation anche in Eurolandia. Lo sblocco delle aspettative di inflazione misurate dai mercati, che hanno improvvisamente puntato verso l’alto dopo l’annuncio del maxi-piano - per ora solo immaginato - di investimenti in infrastrutture da parte del nuovo presidente degli Stati Uniti, si è verificato anche nell’Unione monetaria.
In Eurolandia le aspettative misurate dai 5yr-5yr swap rate, i derivati che misurano le aspettative sulla media quinquennale di inflazione per il periodo che comincia tra cinque anni (in sostanza, l’inflazione media attesa tra 2022 e 2027) sono salite di 45 punti base (0,45 punti percentuali) dai minimi toccati a settembre. Puntano ora all’1,7%, un livello ancora troppo basso per la Bce, che punta al 2% o poco meno, ma comunque il massimo da un anno. Ad aprile 2015, all’inizio del quantitative easing, queste aspettative (evidentemente per il periodo 2020-2025) puntavano all’1,62%, e salirono fino all’1,86% a luglio dello stesso anno. Poi sono lentamente calate fino all’1,26%, quota toccata il 6 settembre 2016.
È da allora che è iniziato il rialzo: non tutto è quindi sipegato dalla Trumpflation. Il giorno successivo al voto americano, le aspettative erano infatti all’1,46%, ma nei giorni successivi l’accelerazione è stata molto evidente: cinque giorni dopo le presidenziali l’indicatore puntava all’1,59%, quindici giorni dopo all’1,63%. «Una gran parte di questo rialzo - spiegano Fabio Balboni e Simon Wells di Hsbc in una recente ricerca - è stato il risultato della cosiddetta Trumpflation: l’aspettativa di uno stimolo fiscale Usa che sostenga la crescita e spinga la Fed a seguire un percorso più ripido, per i tassi di interesse, di quanto non si fosse previsto in precedenza».
Per gli Stati Uniti - dove gli stessi swap puntano ormai a un’inflazione del 2,1% - il mutamento di prospettiva da parte del mercato può avere un senso, anche se impone di presupporre che lo stimolo fiscale funzioni davvero e che la crescita si trasformi in inflazione come prevede quella curva di Phillips che, al di là forse del brevissimo periodo, è un po’ l’araba fenice della scienza economica (tutti, o quasi, dicono che ci sia, anche se è arduo trovarla).
Ma in Eurolandia? Il nesso evidentemente è molto più tenue, come precisano subito Balboni e Wells: «Al di là di una possibile pressione al ribasso sull’euro, c’è davvero poco che possa aiutare a spingere l’inflazione sottostante della zona euro (e ancor di più se Trump dovesse introdurre maggiori misure protezionistiche che possano colpire l’export di Eurolandia e quindi la crescita)». In definitiva, dunque, concludono i due autori, «non vediamo molte ragioni perché il mercato debba scontare aspettative di inflazione più elevate nella zona euro».
È difficile infatti trovare nei dati segnali di crescenti pressioni sui prezzi. Qualcosa migliora, è vero, ma è l’effetto statistico di una minore flessione dei prezzi dell’energia che spinge in alto l’indice di inflazione. Un aumento generalizzato dei prezzi non si vede: è ferma l’inflazione core (+0,8%), e non accelerano i prezzi dei beni industriali non energetici (+0,3%). I prezzi alla produzione domestici sono ora stabili mentre continuano a calare quelli non domestici. Gli indici Pmi, inoltre, segnalano rialzi più consistenti per i prezzi degli input che per quelli della produzione, con pressioni crescenti quindi per i margini aziendali.
Non saranno quindi le nuove aspettative di mercato a far cambiare rotta alla Bce: «Dal momento che i fondamentali della zona euro sono poco cambiati nelle ultimissime settimane», spiega in un report Marco Valli di Unicredit, questo rialzo delle aspettative e la curva dei rendimenti più ripida che ne è causa «rappresentano soprattutto un irrigidimento “importato” delle condizioni finanziarie, e quindi nulla di cui la Bce possa essere particolarmente felice». Tassi più alti, sia pure sulle scadenze più lunghe, sono esattamente quello che la Banca centrale non vuole.
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