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Piano B solo se fallisce l’aumento «privato»

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il piano del tesoro

Piano B solo se fallisce l’aumento «privato»

La messa in sicurezza del Monte dei Paschi, con la cessione dei crediti in sofferenza chiesta dalla Bce e il conseguente aumento di capitale sottoscritto da privati, va avanti. Ma se il ricorso al mercato rilanciato ieri dal cda del Monte dovesse fallire, è già pronto il Piano B (come confermato stamattina in una notra del Mef):  un’operazione pubblica che al momento prevede la ricapitalizzazione precauzionale in base all’articolo 32 della direttiva europea su risoluzione e risanamento delle banche (la «Brrd» del 2014) e il burden sharing cioè la conversione forzosa delle obbligazioni subordinate, non solo quelle possedute dagli investitori istituzionali ma anche quelle in mano ai risparmiatori.

Il decreto con le misure per l’intervento pubblico è pronto ma, dopo gli ultimi ritocchi dei tecnici del Tesoro, dovrà avere l’avallo formale del nuovo presidente del Consiglio già in fase di elaborazione del programma di governo.

Dopo la lunga fase di stand-by che ha accompagnato l’attesa del referendum e la crisi politica, questa si annuncia settimana decisiva per Montepaschi e l’alternativa secca fra soluzione di mercato e intervento pubblico, banco di prova per la normativa Brrd e un’operazione pilota che potrà essere replicata per altre banche.

L’intervento dello Stato per il Monte, regolato dall’articolo articolo 32, non farà scattare il bail in (si veda il Sole 24 Ore dei giorni scorsi), perché non si tratta di un salvataggio di banca in risoluzione. Se ci sarà il burden sharing, questo non porterà all’azzeramento delle obbligazioni subordinate, ma alla loro conversione forzosa nelle azioni della nuova banca. La penalizzazione starà nel prezzo di conversione, ancora da definire perchè sul tavolo del rapporto negoziale con la commissione Ue: il Monte intende comunque rilanciare in questo inizio settimana l’offerta di riacquisto alla pari, a 100, del prestito subordinato sottoscritto dalla clientela privata e convertire quei proventi in azioni della nuova banca, dopo aver verificato con Consob la possibilità di poter riproporre l’offerta sotto un cappello diverso, “appropriatezza” invece di “adeguatezza bloccante”.

Per i risparmiatori che hanno investito nelle obbligazioni subordinate del Monte dei Paschi si riapre quindi un bivio: aderire alla conversione volontaria dei loro titoli che Rocca Salimbeni ha deciso ieri di riaprire, o attendere l’eventuale conversione forzata che arriverebbe con l’intervento statale se l’operazione di mercato fallirà. Il tempo per decidere è stretto.

Il provvedimento del Tesoro pronto a intervenire in caso di bisogno prevede tuttavia il rimborso agli obbligazionisti retail per le perdite subite nella eventuale conversione forzosa, ma sulle condizioni per renderlo possibile (misselling) e sull’entità è ancora in corso il confronto con Bruxelles.

L’ingresso delTesoro nel capitale del Monte (al quale la Bce ha richiesto un aumento di capitale da 5 miliardi) terrà conto del capitale raccolto con la conversione dei subordinati presso gli investitori istituzionali e retail. Stando a fonti bene informate resta da vedere se il Qatar confermerà il suo interesse nell’operazione, dopo la formazione del governo Gentiloni. Sempre secondo le stesse fonti, nel caso di ricapitalizzazione precauzionale il Tesoro potrebbe decidere di farsi carico anche di quel prestito ponte così necessario per il successo dell’operazione: il bridge loan infatti, erogato entro la fine dell’anno, consentirà alla società veicolo di acquistare dal Monte le sofferenze entro il 31 dicembre, per poi riimpacchettarle e venderle sul mercato in forma di senior bond con garanzia pubblica Gacs in forma di cartolarizzazione nel 2017.

L’esito della vicenda Monte Paschi è un test, un’operazione pilota per altri istituti alle prese con l’accoppiata fra cessione di crediti deteriorati e conseguente aumento di capitale e in difficoltà nel trovare nuove risorse fresche per il mercato. La rete pubblica che si attiverebbe per Siena, con un fondo o strumento finanziario equivalente, potrebbe estendersi infatti per sostenere i due istituti veneti oggi gestiti dal Fondo Atlante, vale a dire Veneto Banca e Popolare di Vicenza, e per Carige, arrivando così a un intervento che si può ampliare fino a 7 miliardi, da finanziare con nuovo debito pubblico.

L’arrivo di un nuovo decreto banche rappresenta una prima prova non semplice per il governo Gentiloni, per le ricadute sia sugli investitori sia sull’opinione pubblica. Un altro fronte aperto e urgente che impegnerà il nuovo governo è rappresentato dalla riforma delle banche popolari, che è stata colpita dalla sospensiva del Consiglio di Stato sui limiti al diritto di recesso proprio nella fase decisiva, con due istituti ancora in attesa della loro assemblea (quella di Sondrio è in programma per il 17, quella di Bari per il 27) e le altre alle prese con il rischio di vedersi presentare un conto salato in termini di ricorsi. Da questo punto di vista il decreto imbastito dal Mef non potrà andare oltre una soluzione ponte per continuare sulla strada della riforma in attesa delle pronunce della Corte costituzionale, chiamata in causa anche dalla Regione Lombardia per il conflitto di competenze fra Stato ed enti territoriali.

Il settore bancario attende poi l’intervento sulle imposte differite (Dta), con il correttivo che consentirebbe di considerare in compensazione degli acconti 2016 le somme pagate a luglio scorso ma riferite al 2015. C’è infine la difficile vendita delle quatto “good banks” create dalla risoluzione di Banca Etruria, Banca Marche, Cariferrara e Carichieti. Servono nuove risorse al fondo di risoluzione, il cui importo è da quantificare: la norma, già ipotizzata nel cantiere della manovra 2017, permetterebbe di diluire in cinque anni il conto a carico delle banche finanziatrici.

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