Ebit (Earning before interest and taxation). Cioè: l’utile aziendale prima degli interessi e delle tasse. Oppure: Roe (Return on equity). In altre parole il rapporto tra reddito netto dell’impresa e il suo patrimonio netto. Ancora: Cost/Income. Vale a dire: i costi operativi di una banca rapportati al margine d’intermediazione. Sono tra le misure alternative di performance delle società. Indicatori, non direttamente definiti dalla legge, di cui i documenti contabili sono imbottiti. Una mole d’informazione, spesso eterogenea, che non rende così facile la comprensione dei bilanci. Soprattutto al semplice risparmiatore. Mazars, su questo tema, ha realizzato uno studio. Gli esperti hanno passato ai raggi X la prima semestrale del 2016 e il bilancio del 2015 dei gruppi ricompresi nell’Euro Stoxx 50. Un check up su diversi documenti: dai comunicati stampa alle relazioni di bilancio fino alle presentazioni per gli analisti.
Quali i risultati? Un primo dato che salta all’occhio riguarda il settore industriale e l’Ebit. L’indicatore è molto usato dalle aziende le quali, però, lo chiamano in sette modi differenti. Il che inevitabilmente non agevola, al lettore, la comprensione delle dinamiche contabili.
Ma non è solo una questione di «etichette». C’è anche la diversa metodologia con cui le voci vengono calcolate. Così, ad esempio, è per il debito netto. L’indice patrimoniale, secondo la raccomandazione dell’Aiaf/Effas, dovrebbe risultare dalla somma dei debiti finanziari di lungo e breve periodo. Cui, poi, sottrarre la cassa e la liquidità equivalente. Ebbene: sul totale delle 24 società analizzate solo 8 si conformano alla «formula» suggerita dagli analisti finanziari. Le altre, invece, inseriscono ulteriori o differenti parametri. Sia ben chiaro: proprio perchè non esiste alcuna definizione cogente di debito netto il comportamento è assolutamente legale. E, tuttavia, il differente metodo di calcolo crea una situazione di disomogeneità che impedisce il confronto tra le varie realtà aziendali.
Quelle realtà che, sempre nel comparto industriale, fanno inoltre ampio ricorso ai dati cosiddetti normalizzati. In inglese: «adjusted». Si tratta di numeri «depurati» degli eventi straordinari o «una tantum». L’obiettivo? Semplice: permettere all’investitore di comprendere il business nella sua evoluzione caratteristica. In sé l’approccio è ragionevole. Sennonché molto dipende da cosa si considera «straordinario».
Così, tra le altre cose, Mazars ha rilevato che il concetto di «adjusted» nel 78% dei casi è ricondotto all’attività di ristrutturazione. Una riconciliazione corretta? In teoria la risposta è positiva. E tuttavia il «restructuring» spesso si articola temporalmente oltre il singolo esercizio. Quindi considerarlo automaticamente voce «non ricorrente» appare un’operazione eccessiva.
E non solo. Gli esperti hanno rilevato che nell’83% dei casi l’introduzione degli indicatori «adjusted» produce un effetto positivo sulla performance del business. Il dato in sé non stupisce. Le voci «one off», spesso e volentieri, sono costituite da oneri oppure da svalutazioni (ad esempio dell’avviamento). E, però, il loro impatto «migliorativo» deve essere sottolineato. Diversamente la lettura del bilancio, soprattutto da parte di chi non è molto esperto, può indurre conclusioni errate.
Su questo fronte, a ben vedere, vengono in aiuto le linee guida dettate dall’Esma. L’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati ha, infatti, previsto la regola della cosiddetta prominenza. Cioè: gli indicatori alternativi di performance non devono mostrarsi con maggiore rilievo rispetto a quelli derivanti direttamente dai documenti contabili. In tal senso, nel 94% dei casi considerati da Mazars, le misure normalizzate sono accompagnate a quelle «reported» sia nel bilancio che nella semestrale. Tutto e rose e fiori, quindi? La situazione è un po’ più complessa. Nei comunicati stampa la percentuale di società industriali che applica la regola della prominenza scende al 41%. Può obiettarsi: il numero contabile attraverso cui effettuare la riconciliazione si ritrova comunque nel bilancio d’esercizio oppure del semestre. Vero! Ciò detto, però, non deve sottostimarsi l’importanza dei comunicati stampa.
Al di là di quanto indicato dal report di Mazars, il «press release» rappresenta un documento che ha forte impatto sui listini. Più di quanto il semplice risparmiatore possa ipotizzare. Il comunicato stampa, infatti, costituisce quasi sempre il primo passo attraverso cui l’azienda permette al mercato di apprendere dei suoi conti. E proprio la «tecnica» della normalizzazione gioca il suo ruolo.
Un esempio può essere d’aiuto per comprendere la situazione. Molte società, quando pubblicano i conti, tra i vari numeri indicano ovviamente i ricavi. Questi, soprattutto nella titolazione dello stesso comunicato, sono spesso indicati al lordo dell’effetto-cambi. Una consuetudine assolutamente lecita che, a fronte del recente indebolimento dell’euro rispetto al dollaro, ha permesso a diverse multinazionali di indicare buone percentuali di aumento del fatturato rispetto a dodici mesi prima. Rialzi che, tuttavia, sono per l’appunto da ascriversi soprattutto alla semplice conversione contabile delle «revenues» denominate in dollari. Non c’è, insomma, l’incremento dei volumi delle vendite. Ebbene, nonostante nel «press release» sia comunque presente la «normalizzazione» dei ricavi a tassi di cambio costanti, è accaduto che il titolo della società, in scia ai rilanci delle agenzie di stampa, migliorasse le sue quotazioni. Certo: in questi casi la situazione è inversa a quella descritta da Mazars. Qui il dato «reported» è più favorevole rispetto a quello «normalizzato». E, tuttavia, l’esempio da un lato mostra l’importanza del comunicato stampa; e, dall’altro, induce a chiedere che la riconciliazione tra numeri «adjusted» e quelli «reported» sia sempre presente anche in simili documenti.
Gli istituti finanziari
Fin qui alcune prassi, e tante altre se ne potrebbero ricordare, nelle società industriali: quali invece le consuetudini delle banche? Anche su questo fronte, seppure con le debite differenze, il fenomeno si ripete. Nelle spese operative, ad esempio, alcuni istituti comprendono gli accantonamenti per le perdite sui crediti. Altri, invece, no. E che dire del Roe? Qui alcune banche escludono dall’ «equity» un particolare tipo di debito subordinato.
Insomma: la mancanza di normative cogenti sulla definizione e calcolo degli indicatori alternativi di performance (Iap) lascia alle aziende una certa discrezionalità. La quale, è indubbio, può essere utile a meglio conoscere l’andamento contabile di una società. E, tuttavia, rende difficile al semplice risparmiatore l’interpretazione dell’informazione finanziaria.
Al che il signor Rossi domanda: si tratta di una situazione allarmante? «La risposta è no - dice Chiara Del Prete, partner financial services advisory di Mazars e socia Aiaf-. In primis va ricordato che la lettura del bilancio richiede un certo livello di competenza. Una preparazione che permetta di sfruttare gli indicatori alternativi e non, al contrario, di “subirli”». Inoltre l’Esma ha dettato delle linee guida rispetto agli Iap. Indicazioni, con riferimento alle quali, «la Consob ha indicato che manterrà alta l’attenzione sul loro rispetto». Infine, conclude l’esperta, «da un lato ci sarà l’effetto positivo legato al pressing degli analisti nel chiedere più informazioni alle società; e dall’altro, è comunque in atto il procedimento per arrivare alla definizione normativa di uno degli indicatori alternativi più usati: l’Ebit». Le considerazioni sono ragionevoli. E, tuttavia, resta il fatto che il semplice risparmiatore si trova comunque di fronte ad una «babele» di indicatori difficili da comprendere. In Italia si fa molto parlare della necessità di diffondere la cultura finanziaria. Nel momento in cui il regulator consente, o agevola, il proliferare di indicatori alternativi la competenza richiesta diventa troppo elevata. Il rischio è che l’informazione finanziaria rimanga, di fatto, appannaggio di un élite.
vittorio.carlini@ilsole24ore.com
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