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Banche: lo slalom tra Npl, riassetto e regole

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lO SCENARIO

Banche: lo slalom tra Npl, riassetto e regole

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Il Governo ha disteso una rete di protezione sul sistema bancario. Come un acrobata, qualunque banca ora sa che nel caso in cui dovesse mancare il fiato (la liquidità) o la forza nelle braccia (il capitale), potrà lasciarsi cadere verso l’abbraccio dello Stato.

Una situazione di maggior sicurezza che dovrebbe rendere più tranquilli gli spettatori, cioè il mercato, e chi vigila sullo spettacolo. Ma che non semplifica, di per sé, le acrobazie. Anzi: a tendere, i fattori di rischio e le incertezze per le banche italiane sono destinati ad aumentare.

Sulle spalle, c’è anzitutto il peso dei crediti deteriorati. A cui si aggiunge un assetto, soprattutto per il credito cooperativo, non ancora definito e regole sempre più stringenti. Tre incognite pesanti, per un settore da anni alle prese con evoluzioni sempre più complesse ma necessarie per resistere a una crisi ormai strutturale di redditività. Il 2017, sfruttando la rete di protezione messa a disposizione dello Stato, dovrà fornire risposte chiare. Diversamente, il pericolo di farsi male, molto male, domani sarà più elevato di oggi.

Il contesto
«Il piano per il salvataggio pubblico dà un po’ di sollievo alle banche italiane, ma non risolve i suoi problemi di fondo», ha sentenziato lapidaria S&P. Che esprime un giudizio positivo (e non era scontato) sul provvedimento ma non manca di rimarcare che il settore – oppresso da una quantità «ancora molto elevata» di asset non performing, da un’eccessiva frammentazione e da una ripresa ancora incerta - «continua a presentare basse prospettive di profittabilità». Il problema non è da poco (senza redditività gli investitori migliori si allontanano), ma è comune a tutta l’industry bancaria europea, se non globale. Il fatto è che le banche italiane sono reduci da un decennio terribile che, a differenza di molte concorrenti, non è stato mitigato da interventi straordinari (cioè pubblici). E non tutte, oggi, hanno le forze per affrontare nuovi salti mortali.

Per farsi un’idea basta un’occhiata ai dati presentati poche settimane fa da Massimo Proverbio di Accenture alla Retail banking conference: tra il 2007 e il 2015 le banche italiane hanno perso 5,6 miliardi di ricavi (da 84,3 a 78,7) e intanto hanno visto quadruplicate le rettifiche sui crediti, dai 5,5 miliardi del 2007 ai 20,6 del 2015; gli sforzi sui costi ci sono stati, ma gli effetti (un miliardo in meno, da 49,6 a 48,6) hanno avuto un impatto limitato sugli utili, precipitati da 22,4 miliardi pre-crisi ai 3,7 dello scorso anno. Nel frattempo il patrimonio netto è salito da 243 a 412 miliardi: le banche si sono rafforzate, ma ora c’è più capitale da remunerare. E non è una passeggiata. Il RoE che nel 2007 era pari al 9,2% lo scorso anno è sceso allo 0,9%. È la solita media del pollo, ma certo il dato non contribuisce a migliorare l’appeal del settore sul mercato. Per fortuna, stima questa volta Prometeia, con l’allentamento della pressione sugli Npl e un ulteriore sforzo sui costi la situazione è destinata a migliorare (il RoE potrà salire al 4,2% nel 2019), ma non abbastanza da raggiungere il cost of equity, previsto sempre al di sopra dei 9-10 punti: di qui la evidente necessità di uno sforzo straordinario.

Il peso degli Npl
Il problema con la “p” maiuscola delle banche italane restano i crediti deteriorati, impantanati in uno «pseudo-mercato che non esiste», come ha detto il ministro Padoan nel forum con Il Sole 24 Ore. I dati più freschi, relativi a fine ottobre e diffusi dalla Banca d’Italia, parlano di 85,47 miliardi di sofferenze nette (dagli 85,16 di settembre), per un rapporto pari al 4,8% sugli impieghi totali, certifica l’Abi. Il dato, vale la pena di sottolineare, è netto e dunque tiene conto delle svalutazioni già effettuate dalle banche: lo stock lordo, infatti, ammonta a 198,6 miliardi. Certo il deterioramento del credito è una piaga che affligge non solo le nostre banche, ma «gli indicatori sulla qualità degli asset in Italia hanno raggiunto livelli decisamente peggiori rispetto alla media della zona euro», sottolinea Fitch nella sua ultima nota dedicata al settore: in effetti un quarto dello stock europeo, ha confermato l’Eba a inizio mese, fa capo alle banche italiane.

Che, quindi, devono alleggerirsi. Di più e più rapidamente delle concorrenti europee. O, in alternativa, svalutare. Cioè portare i valori di carico più vicini ai prezzi di mercato, sacrificio immediato per salvaguardare soddisfazioni future: è quello che avrebbe fatto Mps nell’ambito del piano concordatocon la Bce e poi naufragato, è quello che intende fare si sua spontanea volontà UniCredit prima di chiedere 13 miliardi al mercato.

«Una soluzione ‘chirurgica’ mediante la cessione di pacchetti di Npl è quella che consentirà alle banche italiane di rientrare rapidamente nei parametri imposti da Bce - osserva Rossella Locatelli, ordinario di Economia degli intermediari finanziari e direttore del Centro di ricerca su Etica e responsabilità sociale negli affari all’Università dell’Insubria - e mettersi in linea con i valori europei». E qui qualcosa si sta muovendo: mai come adesso in Italia c’erano stati tanti crediti – formalmente – in vendita: 50 miliardi, secondo le stime di Prelios. Bene. Ma c’è un caveat: «Questa pressione a smobilizzare rapidamente crea un pericolo significativo sulle imprese – ragiona Locatelli -: ci si deve chiedere come saranno gestiti i crediti Npl ceduti, quale atteggiamento e quali professionalità saranno messe in campo per massimizzare il recupero e quali impatti si potranno avere sul tessuto industriale. Forse esagero, ma corriamo il rischio di avere banche con portafogli crediti abbastanza ripuliti ma un tessuto industriale distrutto».

Il riassetto e le regole
L’altro fattore che appesantisce le banche italiane è l’assetto. Cioè la distribuzione di pesi e forze all’interno del settore. «Un effettivo consolidamento è la chiave per aggredire alcune delle debolezze strutturali delle banche italiane» osservava ancora S&P settimana scorsa: «Le aggregazioni potrebbero aiutare a correggere la sovracapacità, migliorare i business models e costruire gruppi più grandi con reti più forti».

La sfida vale per tutti. Ma c’è un terzo del settore bancario che, per varie ragioni, oggi soffre di alcune inefficienze in più: il credito cooperativo. Per le popolari, la riforma del gennaio 2015 – ora finita nel mirino del Consiglio Stato – ha spinto 8 banche (da Ubi a Volksbank) a trasformarsi in Spa, mentre Popolare Sondrio e Bari hanno sospeso le assemblee in attesa che si faccia chiarezza. Per le une e le altre, però, non tutto è risolto: se l’obiettivo è la stabilità di medio-lungo periodo, fatta di dimensioni rilevanti e di un azionariato abbastanza solido da essere a prova di scalata, rimane lontano per molti. E lo stesso può dirsi per le 330 Bcc, universo in piena spaccatura intorno alle due capogruppo Iccrea e Cassa centrale banca: quel che conta è il risultato, ma il pericolo di perdere più di quel che si ottiene c’è. «In questo caso – dice ancora Locatelli - il problema principale è dato soprattutto dalla (in)capacità del modello cooperativo di cogliere l’occasione per trovare soluzioni, diverse da quelle del passato ma che riaffermino in chiave moderna i valori della cooperazione. Invece vedo in molti casi e in molti episodi il tentativo di mantenere lo status quo (con tutte le forze e con tutti i mezzi), che può portare al disastroso risultato di far scomparire o creare grandi difficoltà alla cooperazione nel credito, che è un grande valore storico italiano ed europeo».

C’è poi un’ultima incognita: le nuove regole. Che forse fa anche più paura, perché viene da fuori. E costringerà gli acrobati, volenti o nolenti, ad adeguarsi. C’è la revisione di Basilea 4, sulla ponderazione degli Rwa, e i nuovi principi contabili Ifrs9, che dal 2018 obbligheranno le banche a elevare le coperture sui crediti in bonis ma con maggiori possibilità di deterioramento oltre il tipico orizzonte dei 12 mesi. Le revisioni impatteranno su tutte le banche del mondo, «ma per quelle italiane gli effetti rischiano di essere anche più pesanti, visto un business model tradizionale e una forte esposizione sulle imprese finanziate», mette in guardia Giovanni Razzoli, senior analist di Equita Sim. Che ha iniziato a stimare gli effetti delle due riforme in corso: Basilea 4, nella sua versione più hard, rischia di “consumare” 13,4 miliardi di capitale alle banche italiane, l’introduzione dei modelli Ifrs9 potrebbe limare di 20 punti base il coefficiente Cet1 e far lievitare di 13 punt base il costo del rischio. Stime, per ora. Ma i banchieri hanno iniziato a maneggiare con cura: UniCredit, ad esempio, nel redigere il suo piano al 2019 ha messo in conto che le novità regolatorie bruceranno 150 punti base di capitale nei prossimi tre anni.

«La maggior parte delle nuove regole già entrate in vigore o in arrivo, con la sola eccezione del Pmi supporting factor, renderanno sempre più difficile per le banche finanziare le imprese, per lo più piccole e medie, con rating non di prima fascia», denuncia Camillo Venesio, ad di Banca del Piemonte e vice presidente Abi. Non è un dettaglio: il troppo rigore fa male sia alle imprese che alle banche, che di norma è nei finanziamenti alle Pmi che basano buona parte del proprio margine d’interesse. Quindi? «Auspicando gradualità nell’entrata in vigore delle nuove norme, c’è da cambiare, in fretta». Come? «Aggiornando i modelli di business, migliorando e ampliando i servizi offerti, assestandosi su dimensioni non per forza elevate ma necessariamente efficienti».

Il 2017, con la rete pubblica, consentirà di agire in condizioni di maggior sicurezza. Meglio non esitare.

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