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Non solo banche centrali, focus sui rapporti Usa-Cina

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VALUTE

Non solo banche centrali, focus sui rapporti Usa-Cina

Meno politica monetaria e più politica estera e commerciale. Detto altrimenti: minore rilevanza dei banchieri centrali e maggiore peso riguardo ai rapporti tra le grandi aree commerciali. In particolare tra gli Stati Uniti e la Cina.

È in sintesi uno dei leit motiv indicati dagli esperti riguardo il mondo delle valute nel 2017.

Certo, da un lato le previsioni degli analisti paiono fatte apposta per essere smentite. E dall’altro gli istituti centrali, dalla Fed alla Bce fino alla BoJ, rimangono comunque attori essenziali. Tuttavia gli operatori tendono a ridurne l’importanza.

Il motivo? Semplice: perché le politiche monetarie, prima negli Stati Uniti poi in Giappone e ora in Europa, da troppo tempo sono state «dispiegate» in tutta la loro forza. Di conseguenza tendono a perdere efficacia. O, per dirla con un linguaggio più tecnico, sempre di più sono ricomprese nei prezzi e nelle quotazioni degli asset finanziari. Monete incluse.

A fronte di ciò non stupisce, quindi, che Hsbc, in un suo report, richiami la «Trump-flation» quale market mover del dollaro. L’inaspettata elezione del nuovo presidente americano è un fattore che realmente cambia il contesto del mercato. Un cosiddetto «game-changer» che può replicare l’impatto sul cambio valutario, dal 2012 in poi, dell’Abenomics in Giappone.

In quel contesto, nonostante i risultati della strategia del primo ministro nipponico siano stati ampiamente deludenti, lo yen si è comunque fortemente svalutato rispetto al dollaro e all’euro.

Ebbene negli Stati Uniti, con la dinamica del biglietto verde ovviamente opposta a quella realizzata dalla divisa nipponica, la situazione è in larga parte simile. Sennonché una differenza deve comunque precisarsi: quella dell’arco temporale considerato.

Troppo spesso, infatti, le valutazioni e gli articoli di giornali prescindono dal cosiddetto timing. Vale a dire: quando si affrontano dinamiche finanziarie bisogna sempre indicare il tempo cui ci si riferisce nell’analisi.

Così nel breve periodo, nonostante molte delle prospettate mosse di Trump siano già scontate dal mercato, la divisa Usa dovrebbe mantenere la sua forza. «Nella prima parte dell’anno - spiega Antonio Cesarano, economista di Mps Capital services - l’euro verso il dollaro dovrebbe rimanere attorno a 1,07». Un livello che, in apparenza, può sembrare alto per la moneta di Eurolandia. Ma che, al contrario, è l’espressione di forze che si muovono in direzioni opposte. «Da una parte la Bce, i cui acquisti mensili di asset da aprile caleranno da 80 a 60 miliardi, che di fronte alla ricomparsa dell’inflazione nell’Ue potrebbe essere spinta a ulteriori strette». Al contrario, dall’altra, la Fed può rallentare sul cammino dei rialzi dei tassi, in attesa di capire la reale portata degli annunci del nuovo presidente.

Già, le concrete mosse del neo inquilino della Casa Bianca. Queste saranno il market mover nel medio periodo. Soprattutto nella seconda metà del 2017. L’attivismo di Trump potrebbe creare problemi sul fronte del commercio internazionale. Il che, quasi inutile sottolinearlo, impatterà il mondo valutario. In particolare, dopo le prime sortite dell’ex conduttore di «The Apprentice» nei confronti di Pechino, quello del cambio tra lo yuan cinese e il dollaro statunitense.

A ben vedere, nel dicembre scorso, lo yuan «offshore» era andato assestandosi in scia all’elezione di Trump. La divisa era passata da 6,84 a 6,99. Successivamente, però, la moneta è nuovamente calata, arrivando anche sotto 6,8.

Le cause? Diverse. Tra queste certamente la fuga di capitali cinesi all’estero. Un fenomeno, non dell’ultima ora, contro cui Pechino ha deciso di adottare il pugno di ferro. Oltre a ciò però, e volgendo lo sguardo più sul medio periodo, potrebbero essere le avvisaglie di una guerra monetaria. Vale a dire: nel momento in cui la nuova amministrazione Usa imponesse più alti dazi alle importazioni dalla Cina, quest’ultima farebbe certamente ricorso alla svalutazione della sua moneta.

Già, la svalutazione. A pensarci bene una sorta di paradosso: la Banca centrale cinese infatti, da metà 2014 ad oggi, ha «bruciato» circa 1.000 miliardi di dollari in riserve proprio per contrastare la perdite di valore dello yuan. Una strategia, va ricordato, che si inserisce nella più ampio progetto di rendere l’economia del Dragone molto più focalizzata sui consumi interni e meno sulle esportazioni. Insomma: il contesto è quanto mai complesso e fluido. Tanto che, sul medio periodo, gli esperti hanno scarsa voglia di fare previsioni.

Quelle stime, che al contrario, vengono azzardate rispetto al cross euro-sterlina. Qui, va ricordato, è imminente la decisione della Corte Suprema Uk sulla procedura di attuazione della Brexit. I giudici infatti dovranno indicare se è sufficiente l’attività dell’Esecutivo oppure è necessario l’intervento del Parlamento.

Una decisione non da poco. È abbastanza chiaro che, nel secondo caso, la velocità dell’iter di uscita dall’Ue subirebbe un rallentamento. In un simile scenario, è l’indicazione degli esperti, il cambio euro-sterlina, dopo un balzo verso l’alto in prossimità della sentenza, si manterrebbe sugli attuali livelli (0,85). Al contrario, nell’ipotesi favorevole all’azione del solo Governo, il pound tornerebbe a svalutarsi nei confronti della moneta unica.

La quale, a sua volta, sarà però messa sotto pressione dai tanti appuntamenti elettorali all’orizzonte. Prima le politiche in Olanda, poi le presidenziali in Francia e infine le elezioni in Germania. Senza contare l’ipotesi di voto anticipato in Italia.

Insomma: mai come nel 2017 la variabile politica giocherà un ruolo da protagonista nel mondo delle monete.

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