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Il «sentiero stretto» di Padoan alla prova della manovra…

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L'Editoriale|il sentiero stretto

Il «sentiero stretto» di Padoan alla prova della manovra d’autunno

Scritta l'ultima riga del Def e limato il testo della manovrina trasformatasi in un decreto omnibus tra correzione e sviluppo, al ministero dell'Economia si comincia a guardare alla manovra d'autunno.

Dove si ampliano le dimensioni del terreno di gioco (almeno 17 miliardi per partire, come calcolato ieri sul Sole 24 Ore), si moltiplicano le variabili ma non cambia l’ottica di Padoan: quella del «sentiero stretto», immagine cara al ministro amante della montagna, che si incunea non solo tra le esigenze dei conti pubblici e quelle dell’economia reale, ma anche fra i tempi lunghi delle riforme e la fretta di molta politica, Pd in testa. Ma la mappa del risanamento italiano, spiega Padoan in ogni occasione, non prevede scorciatoie: un equilibrio complicato fra riduzione del deficit e politiche espansive, con il rischio calcolato di scontentare sia i rigoristi sia i “keynesiani” o presunti tali.

Nei calendari di Via XX Settembre non ci sono giorni facili, ma quelli appena passati sono stati tra i più complicati, percorsi da tensioni continue su un po’ tutta l’attualità della politica economica, dalle accise alle privatizzazioni, dall’Iva al Catasto. I documenti appena approvati dal consiglio dei ministri mostrano i segni di queste battaglie, che non hanno però avuto un risultato a senso unico: le accise sono quasi scomparse dalla manovrina, con la piccola eccezione del ritocco sui tabacchi, ma il Catasto resta nel Def, come ambizione più che come programma operativo a stretto giro, e le privatizzazioni rimangono anche se più sfumate che in passato.

E la manovra? All’orizzonte, per ora, le incognite superano di gran lunga i dati, ma qualche certezza di partenza non manca. La correzione fondata sullo split payment a tutto campo, la stretta sulle compensazioni e un nuovo, piccolo round di spending review ministeriale consegna a Bruxelles i due decimali di aggiustamento richiesti, ma soprattutto offre a Roma un mattone strutturale che dall’anno prossimo, quando sarà applicato per tutti i 12 mesi, vale tre decimali di taglio di deficit. Tradotto in euro, si tratta di cinque miliardi, che non sono decisivi ma aiutano parecchio a comporre il complicato mosaico della manovra d’autunno.

Sarà quella la prossima arena del confronto fra il passo da montanaro delle riforme e gli scatti da centrometrista della politica, con un occhio ai conti e l’altro ai sondaggi sulle elezioni in arrivo. Sarà la difficile sintesi di questi ingredienti a decidere come aggredire il cuneo fiscale, al centro di ricette tra il minimal e l’ambizioso a seconda di quanto spazio sarà lasciato libero dalle clausole Iva. L’impegno a fermare gli aumenti è stato appena ribadito nel Def, ma dalle parti dell’Economia l’idea di sbloccare almeno una parte della clausola per tagliare con più forza il cuneo fiscale continua a farsi sentire, e non è difficile prevedere che lì si concentrerà, sotterraneo o meno, il braccio di ferro politico sulla manovra d’autunno. E su come finirà, per ora, nessuno degli interessati è disposto a scommettere un euro. La certezza è un’altra, e riguarda l’identikit del vero malato italiano, quella produttività del lavoro che in Italia ha cominciato a rallentare nei primi anni ’90 ed è costantemente in territorio negativo dal lontanissimo 2003.

Per rianimarla, è la convinzione di Padoan e dello staff di tecnici che lavorano con lui, non bisogna abbandonare la strada degli interventi sul «business environment», etichetta sotto cui si nascondono tutte le misure per favorire gli investimenti privati, dagli ammortamenti iper e super al fisco amico per gli investitori stranieri, che sono strategiche ma hanno un difetto: non scaldano i cuori nel dibattito pubblico, e non si manifestano nella vita quotidiana del giorno dopo l’approvazione, ma nelle indagini economiche degli anni successivi.

Anche questa, però, è politica: Padoan per primo è solito rappresentarsi come «accademico» e indicare la poltrona di Via XX Settembre come «il ruolo che ricopro pro tempore», ma gli sta stretta la definizione del tecnico che non mastica di politica affibiatagli da qualche esponente Pd quando la temperatura fra il ministero e il Nazareno si scalda. Nell’ottica del ministro, che accanto ai ruoli accademici e scientifici ha in curriculum gli incarichi di consigliere economico per i premier D’Alema e Amato e la direzione della Fondazione Italianieuropei, la battaglia fra riformisti e populisti che domina il quadro europeo è più articolata di quanto appaia nella versione stereotipata offerta dal dibattito politico. Fra gli avversari del riformismo di governo ci sono certo i tifosi dell’Italexit, ma anche chi spinge per rompere con Bruxelles per fare deficit e mostrare un’immagine muscolare a un elettorato diventato freddo con l’Europa; offrendo una sponda a chi, a Nord delle Alpi, accarezza l’idea di dare una lezione al nostro Paese, imponendo una sorta di shock tipo Lehman Brothers per fare piazza pulita di quelle che vengono giudicate le troppe esitazioni italiane sulla via del risanamento. Un rischio, questo, impossibile da affrontare per un Paese alle prese con i primi tentativi continentali di ricapitalizzazione precauzionale della banche in crisi e con un debito al 132,5% del Pil: a segnalare il problema c’è anche uno spread che torna a scaldarsi in vista del tramonto dello scudo Bce, e che viaggia ora intorno ai 210 punti (anche se nel confronto con gli anni bui della crisi va tenuto in considerazione anche il cambio del titolo benchmark, oggi rappresentato dal Btp decennale emesso a febbraio che fisiologicamente allarga la forbice di 10-15 punti).

Proprio l’Europa è invece la seconda casa del ministro, che dalle parti della commissione incontra gli attestati continui del vicepresidente Dombrovskis o del commissario agli Affari economici Moscovici. Non perché l’Italia sia un cliente facile per Bruxelles, come mostrano i 20 miliardi tondi di flessibilità riassunti nel Def e ottenuti in mesi di trattative condotte in perfetta continuità tra il governo Renzi e quello Gentiloni. Resta da capire, però, se questa continuità è in grado di reggere alle tensioni in arrivo da partite elettorali, italiane ed europee, su cui ogni scommessa è un azzardo.

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