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Il fattore Cina manda a picco le materie prime (e getta ombre sui…

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stretta creditizia

Il fattore Cina manda a picco le materie prime (e getta ombre sui mercati)

(Ansa/Ap)
(Ansa/Ap)

Un nuovo terremoto sta investendo il comparto delle materie prime, con petrolio, oro, rame e minerale di ferro che hanno archiviato la peggiore settimana da sei mesi. L’epicentro delle scosse, che rischiano di trasmettersi al sistema finanziario globale, è ancora una volta in Cina, dove è in corso una stretta creditizia che nell’ultimo mese ha già provocato una fuga di almeno 500 miliardi di dollari dai mercati.

La minore liquidità nel Paese asiatico – dove i tassi interbancari a breve sono schizzati ai massimi da due anni – potrebbe inoltre portare a una brusca frenata degli investimenti in diversi settori, a cominciare dall’edilizia e dalle infrastrutture, con serie ripercussioni sullacrescita economica e sulla domanda di metalli ed energia, per cui la Cina è ormai cruciale.

La nuova crociata di Pechino contro la finanza ombra e la gigantesca bolla del debito che minaccia l’economia del Paese (e in ultima istanza quella mondiale) è rimasta in secondo piano, con molti analisti concentrati soprattutto su altri fattori che hanno peggiorato l’umore degli investitori nei confronti delle materie prime: dalla Federal Reserve, avviata a rialzare i tassi di interesse a giugno, al rallentamento dell’attività manifatturiera (non solo in Cina ma anche negli Usa), dal tramonto delle illusioni sul maxi-piano di Trump per le infrastrutture fino all’ostinata e strabiliante crescita della produzione americana di shale oil, che ha compensato buona parte dei tagli Opec.

Anche questi motivi hanno contribuito al rovinoso crollo delle quotazioni del petrolio, che ha cancellato tutti i rialzi che aveva accumulato da fine novembre, quando l’Opec aveva annunciato una riduzione dell’output di 1,2 milioni di barili al giorno (salita poi a 1,8 mbg, con l’impegno della Russia e di altri produttori esterni al gruppo).

È stato proprio il greggio a risvegliare l’attenzione sulle materie prime, con un affondo del 5% giovedì e poi ancora del 3% ieri mattina – nel giro di appena dieci minuti – sui mercati asiatici. La rottura di importanti supporti tecnici ha gonfiato il volume delle liquidazioni degli hedge funds, che secondo la Reuters avrebbero coinvolto anche nomi eccellenti, come Andurand Capital, di Pierre Andurand, noto per le posizioni molto rialziste sul petrolio.

Le quotazioni del barile sono comunque riuscite a rimbalzare nel corso della giornata, chiudendo a 49,10 dollari nel caso del Brent e 46,22 $ nel caso del Wti (+1,5%).

Anche per i listini azionari la seduta è stata positiva, soprattutto in Europa, dove l’Eurostoxx ha guadagnato lo 0,85%, con Milano maglia rosa (+1,48% grazie alle banche) e Parigi e Francoforte sui massimi. Più cauta Wall Street, benché proprio dagli Stati Uniti siano arrivati dati incoraggianti sull’occupazione, che hanno contribuito a risollevare il petrolio.

Sul barile hanno forse influito anche le rassicurazioni arrivate dal governatore Opec dell’Arabia Saudita, Adeeb Al-Aama, secondo cui l’accordo per prorogare i tagli produttivi ha guadagnato anche il consenso di Mosca. Ma sarebbe riduttivo ricondurre le oscillazioni di prezzo dei giorni scorsi solo agli alti e bassi della fiducia degli investitori sull’efficacia degli interventi dell’Opec o sulla salute dell’economia Usa.

Il petrolio non è stato peraltro l’unica materia prima ad essere investita da pesanti vendite. L’oro ha concluso la settimana con un ribasso di oltre il 3%, il peggiore dallo scorso novembre e il suo prezzo rimane sotto 1.230 dollari l’oncia, poco sopra il minimo da metà giugno. Il rame al London Metal Exchange (Lme) è affondato fino a 5.494 $/tonnellata, azzerando i guadagni del 2017, prima di una modesta risalita legata alla minaccia di nuovi scioperi in Perù.

I metalli industriali soffrono in modo particolare il fattore Cina. Pechino non solo assorbe la metà dell’offerta mondiale di rame, ma i suoi fondi di investimento sono molto attivi anche al Lme. È a speculatori cinesi, costretti a una frettolosa chiusura di posizioni, che qualcuno attribuisce l’enorme aumento delle scorte registrato questa settimana nei magazzini della borsa londinese: +25% a quasi 320mila tonnellate.

In Cina la pressione su banche e fondi affinché riducano le attività a rischio è di nuovo altissima da quando il Governo e le autorità di vigilanza, con una rara compattezza, hanno ripreso la battaglia contro la finanza ombra: prodotti di gestione patrimoniale collocati da intermediari non bancari o prestiti erogati al di fuori del circuito ufficiale e dunque sottratti ad ogni controllo e rendicontazione nei bilanci degli istituti. Fitch calcola che questo tipo di investimenti abbiano raggiunto 20mila miliardi di yuan (2.800 miliardi di dollari) a fine 2016, ossia il 26% del Pil cinese, contro il 10% di tre anni fa.

La stretta messa in atto da Pechino, attraverso diverse misure di controllo, ha già avuto ripercussioni importanti. I tassi interbancari a breve sono saliti al record da due anni, così come i rendimenti delle obbligazioni corporate (tanto che una dozzina di società è andata in default da inizio anno, soprattutto in gran parte nel tribolatissimo settore siderurgico).

Anche i principali listini azionari sono scesi ai minimi da tre mesi, sia pure in modo graduale e non scomposto come nell’estate 2015 e poi di nuovo a inizio 2016. Mentre le materie prime – al centro di forti speculazioni in Cina, anche al di fuori dei mercati regolamentati – hanno subito un crollo pesante, che ha riguardato in particolare l’acciaio e il minerale di ferro. Quest’ultimo ha perso oltre il 10% nell’ultima settimana, con ripercussioni dirette sui prezzi benchmark impiegatidall’industria siderurgica di tutto il mondo: le rilevazioni di Steel Index lo davano ieri a 62,49 $/tonnellata, contro gli oltre 90 dollari di febbraio).

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