I tasselli che dovranno andare al loro posto in tempi brevi non sono pochi. Ma se tutto filerà liscio, tra giugno e luglio il tanto atteso accordo sulla nuova regolamentazione bancaria, meglio conosciuto come Basilea 4, potrebbe davvero vedere la luce.
A quanto risulta al Sole 24Ore, in questi giorni si sta lavorando intensamente a livello tecnico per arrivare a un’intesa da presentare i prossimi 14-15 giugno sul tavolo del Ghos, il gruppo formato dai governatori delle principali banche centrali. Anche perchè l’input politico è chiaro: serve un accordo prima del prossimo incontro del G20, fissato per il 7 e 8 luglio ad Amburgo, sotto la presidenza di turno tedesca. A volerlo è il mondo politico europeo, che intende dare un indirizzo chiaro al comparto finanziario e mettere il punto finale a un (fin troppo) prolungato periodo di incertezza sul versante regolamentare. Ma segnali di apertura al dialogo arrivano anche dagli Stati Uniti, che negli ultimi tempi sembrano voler trovare una mediazione, nonostante le evidenti divergenze tra la visione “trumpiana” del mondo e quella del Vecchio Continente. Lo stesso segretario generale del Comitato di Basilea, Bill Coen, nei giorni scorsi ha ribadito che «dato l’ampio sostegno» l’auspicio è di «finalizzare le riforme nel prossimo futuro».
La bozza di accordo
Ma quale potrebbe essere allora il punto di caduta tra le parte? Qua la questione diventa tecnica. Il tema di confronto negli ultimi mesi si è concentrato in particolare sull’output floor, ovvero la limitazione al beneficio che i modelli interni - con cui le banche, prevalentemente europee, valutano i loro rischi - possono generare rispetto ai modelli standard. Ebbene: a quanto risulta da una bozza di accordo che in questi giorni sta circolando a Bruxelles, questa limitazione, ovvero il cosiddetto “output floor”, sarebbe fissata al 75%. Nei fatti significa che la rischiosità degli attivi calcolata con i modelli interni non può scendere al di sotto del 75% di quella che a parità verrebbe calcolata con i modelli standard. Il dato è a metà tra l’80% chiesto dagli Usa, dove lo standard è prassi, e il 70% oltre il quale l’Europa, guidata dall’asse franco-tedesco, non vuole salire. Secondo la bozza, sarebbe previsto anche un periodo di introduzione graduale della riforma, che entrerebbe in vigore nel 2021 (con un floor al 45%), per proseguire a scaglioni progressivi del 5% così da entrare a regime nel 2027. Se così fosse, si tratterebbe di un phase-in più morbido rispetto alle stime, che avevano messo un conto un ingresso al 55% nel 2021 con la piena implementazione nel 2025.
I numeri non sono questione di lana caprina, ovviamente. Perchè da qua emergono eventuali fabbisogni patrimoniali. Secondo alcune stime, tuttavia, qualora venisse confermata l’introduzione graduale del 75% al 2027, l’impatto per le principali banche europee dovrebbe essere assorbibile. Ciò non toglie che a pagare il prezzo più alto siano le banche francesi, tedesche, svedesi e olandesi, che fino ad oggi sono state tra le principali beneficiarie dei modelli avanzati. L’Italia, invece, per una volta dovrebbe uscire dalla partita della riforma di Basilea 3 senza danni ingenti, visto che i modelli avanzati implementati dalle principali banche del Paese non sono considerati particolarmente aggressivi.
L’incognita Trump
Al di là delle stime, va detto però che le discussioni sono ancora in corso, e che comunque non sono da escludere nuovi possibili rinvii. Del resto è da oltre sei mesi che il mondo bancario attende il nuovo capitolo della regolamentazione finanziaria. Quando l’accordo sembrava a un passo, alla fine del 2016, si è concretizzata a sorpresa la vittoria di Donald Trump alla Casa Bianca, che ha messo in stand-by l’intera partita.
Il tassello decisivo, del resto, è rappresentato dalla nomina del rappresentante della Fed in seno al Comitato di Basilea. Quel posto è vacante da inizio aprile, da quando cioè Daniel Tarullo, l’uomo che negli ultimi sette anni ha rappresentato la Banca centrale americana nei dossier relativi alla regolamentazione finanziaria e fiero sostenitore dell’ortodossia delle regole, ha scelto di andare in pensione cinque anni prima del dovuto. Colpa di una aperta divergenza di visione con Trump, che punta invece a una deregulation del mondo della finanza. Da allora parte dell’establishment finanziario americano si è messo in moto per sensibilizzare la presidenza sul tema. La stessa numero uno della Fed, Janet Yellen, e il segretario del Tesoro Steven Mnuchin, avrebbero mosso i loro “sherpa” per accelerare una nomina quanto mai urgente, senza la quale tutto rimarrà come è. A metà giugno si capirà se questo pressing sarà servito a qualcosa.
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