I rischi del cambiamento climatico non interessano più alla Casa Bianca, ma il mondo dell’economia e della finanza non ha nessuna intenzione di chiudere gli occhi. Oltre cento società (anche americane), con una capitalizzazione di 3.500 miliardi di dollari, hanno dato il loro appoggio ad includere nei bilanci una valutazione dei potenziali impatti delle trasformazioni del clima e delle misure per contenere i gas serra sulle loro attività, nonché le strategie con cui si stanno preparando alla transizione. Nel gruppo – che riunisce anche istituzioni finanziarie con 25mila miliardi di dollari in gestione – figurano due compagnie petrolifere, Royal Dutch Shell e l’italiana Eni, diversi colossi minerari (tra cui Barrick Gold, Bhp Billiton e Vale, ma non Rio Tinto) e utilities, inclusa l’Enel. In quota tricolore, benché assorbita dalla London Stock Exchange, c’è anche Borsa Italiana.
A compattare uno schieramento così folto, variegato ed influente è stata la Task Force on Climate Related Financial Disclosures (Tcfd), che ieri ha concluso il compito affidatole nel 2015 dal G20. L’organismo – istituito nel 2015 dal Financial Stability Board (Fsb) sotto la guida di Mark Carney, governatore della Bank of England – doveva definire una cornice di regole condivise per la disclosure del rischio climatico, in modo da diffondere nel mondo criteri di trasparenza il più possibile uniformi e standardizzati. «I mercati finanziari hanno la possibilità di miglirare le nostre prospettive di fronteggiare il climate change – afferma Carney – ma solo se rendiamo più trasparenti i rischi e le opportunità legati al clima».
La Task Force, che ha elaborato le linee guida con il contributo delle imprese, raccomanda a tutte le società di esposte al climate change di condurre analisi di scenario e di comunicarne il risultato agli investitori, esplicitando in particolare il potenziale impatto sui profitti. Inoltre incoraggia a introdurre parametri legati alle azioni sul clima nelle retribuzioni dei top manager.
Le raccomandazioni sono da applicare su base volontaria, anche se in qualche Paese le autorità di vigilanza sono orientate a renderle obbligatorie. Forte dell’appoggio ricevuto, Carney è comunque convinto che l’adozione si diffonderà rapidamente. L’esistenza della Task Force – la cui guida passa a Michael Bloomberg, ex sindaco di New York – è stata peraltro prorogata fino a settembre 2018, proprio per assistere le imprese nell’implementazione delle linee guida.
Le raccomandazioni saranno presentate al vertice di Amburgo, dove ad accoglierle sarà un G20 ben diverso da quello che le aveva commissionate: gli Stati Uniti, oggi guidati da Donald Trump, hanno ripudiato gli Accordi di Parigi. Ma Carney non si lascia spaventare: il documento è stato elaborato «dal mercato per il mercato», ribatte a Bloomberg Tv- Quanto al G20, ormai è uscito di scena: «È fuori da tutto questo. Ha iniziato il processo, lo ha affidato al settore privato e il settore privato ha preso la palla e si è messo a correre».
A prescindere dagli alti e bassi della politica, il tema del climate risk è sempre più sentito tra gli investitori, vuoi per motivi etici – con un numero crescente di fondi che scelgono di non investire in società inquinanti – vuoi sulla base di considerazioni puramente finanziarie: al giorno d’oggi non è più possibile ignorare le potenziali perdite di denaro legate al climate change, non solo per il moltiplicarsi di catastrofi meteorologiche ma anche per il rischio che norme ambientali più severe o il progresso nelle tecnologie “pulite” facciano crollare il valore di alcune attività. È il tema degli stranded assets, ormai ben noto alle major del petrolio o alle società carbonifere, messe sempre più spesso sotto pressione dagli azionisti e in qualche caso anche dai tribunali. Ne sanno qualcosa ExxonMobil e Peabody, entrambe sotto inchiesta a New York con l’accusa di aver nascosto i rischi climatici.
© Riproduzione riservata