Che la Svizzera non sia più il custode arcigno dei segreti bancari/fiscali di mezzo mondo ormai lo dicono anche i numeri. Nel 2016 la Confederazione ha ricevuto 66.553 richieste di assistenza amministrativa (quindi al netto di tutto il versante penale: le rogatorie) da Francia, Polonia, Svezia e Olanda, soprattutto. Solo due anni prima il record “storico” di istanze era stato di 2.791 dossier, cioè 24 volte meno, tanto da chiedersi cosa sia successo nel frattempo, per chi ancora non se ne sia accorto. La Svizzera, per cercare di uscire dalle black list internazionali che infastidiscono le sue fiorenti attività – dalla farmaceutica al lusso fino al food – ha semplicemente aperto le frontiere alla trasparenza “worldwide”, aderendo a tutti gli standard promossi dal G20 e poi dall’Ocse per sbloccare il nero fiscale (degli altri). Nero che nelle nuove norme internazionali è anche un reato presupposto del riciclaggio e dell’autoriciclaggio, un terreno delicatissimo per chiunque vi si trovi a camminare sopra.
L’ultimo step della compliance internazionale dell’ex scrigno si compirà nel 2018, quando la Svizzera inizierà a trasmettere a decine di amministrazioni fiscali (tra cui quella italiana) i dati di tutti i risparmiatori e degli investitori presenti sulle sue piazze. Sarà quello l’ultimo diaframma a cadere della “maginot” eretta in più di 70 anni per difendere i patrimoni sfuggiti alle tasse altrui.
Ma oggi? Nell’attesa il fisco italiano può chiedere all’amministrazione elvetica informazioni mirate su un singolo contribuente identificato, oppure su un gruppo di contribuenti identificabili sulla base di parametri comuni (richieste di gruppo) o ancora su una «massa» di contribuenti appartenenti a liste selezionate (bulk request, è esattamente quella inoltrata dalla Gdf sul caso Credit Suisse, si veda l’articolo a lato).
Questo asse di scambio di dati fiscali tra Roma e Berna è ormai totalmente guidato da leggi e regolamenti sia di diritto interno (Legge federale svizzera sull’assistenza fiscale in vigore dal 1° febbraio 2013), sia bilaterali (il Protocollo di Milano del 23 febbraio 2015, che aggiorna la Convenzione sulle doppie imposizioni tra Italia e Svizzera degli anni ’70).
Non bastassero questi strumenti, quattro mesi fa le autorità fiscali hanno siglato l’accordo sui «recalcitranti» (testuale), cioè i titolari di conto mai adeguatisi ai diktat ricevuti dagli istituti finanziari svizzeri. Banche, assicurazioni fiduciarie ecc. avevano inviato ai clienti, a partire dall’inverno del 2014, un form per continuare l’operatività: il titolare-contribuente italiano avrebbe dovuto già da allora sottoscrivere una dichiarazione di piena conformità fiscale o, in alternativa, comunicare l’adesione alla voluntary disclosure. Chi non l’ha fatto oggi è nella lista “nera” in viaggio verso Roma.
Sui contribuenti scoperti attraverso lo scandalo dei Panama papers e sui recalcitranti l’agenzia delle Entrate era già passata al contrattacco nella primavera scorsa, inviando richieste di assistenza fiscale di gruppo verso la Svizzera, il Principato di Monaco, Hong Kong e Singapore.
Ma proprio la nuova voluntary disclosure è il convitato di pietra dell’iniziativa della Gdf di ieri sul caso Credit Suisse. I quasi 10mila contribuenti “in attesa di identificazione” hanno 11 giorni di tempo per fare richiesta di adesione alla regolarizzazione internazionale. Il 31 luglio prossimo scade infatti il termine per la composizione “bonaria” delle dimenticanze estere (scriminanti penali e sconto sulle sanzioni previste dalla legge sulla Vd 2.0), poi arriverà la scure dello scambio automatico.
© Riproduzione riservata