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Auto elettrica, totem in Usa e tabù in Europa

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INDUSTRIA/2

Auto elettrica, totem in Usa e tabù in Europa

(Agf)
(Agf)

Industria e finanza negli Stati Uniti. Plants, investitori e fondi. Manifattura e politica in Germania. Fabriken, regolazione e concertazione. Il mondo nuovo dell’auto elettrica è, per molti cantori delle “magnifiche sorti e progressive”, il migliore dei mondi possibili. Nel mondo attuale, negli Stati Uniti il binomio industria-finanza eccita gli animal spirits e gioca a dadi con il futuro, mentre in Germania il binomio politica-manifattura prova a cristallizzare il cambiamento e a consolidare le “vecchie tecnologie”. Ieri, negli Stati Uniti, all’annuncio dei risultati del secondo trimestre di Tesla – perdita in crescita di un terzo e ricavi più che raddoppiati – nel premarket il titolo è salito del 6,5 per cento. Due giorni fa, in Germania, il Governo Federale e i Länder hanno messo il cappello sull’accordo con i vertici di Volkswagen, Daimler e Bmw per la riduzione dell’impatto ambientale dei motori diesel. Un cappello politico benevolo: saranno richiamate 5,3 milioni di auto contro le 9 milioni prospettate all’inizio, con un costo di mezzo miliardo di euro (e non i 2 miliardi preventivati).

Di fronte al cambio di paradigma imposto dalla rivoluzione elettrica – che essa sia reale o immaginaria non importa – le reazioni dei due Paesi, che per oltre un secolo hanno avuto la leadership nell’industria dell’auto, sono completamente diverse. Il meccanismo sociale e economico, politico e culturale che si è attivato negli Stati Uniti – blocco predominante del Nafta – ha un profilo del tutto differente rispetto a quello che si è attivato in Germania, cervello e cuore di una manifattura paneuropea che ha le sue propaggini funzionali in Italia e in Francia.

Negli Stati Uniti, gli investitori comprano Tesla, che ieri è arrivata a capitalizzare 56,6 miliardi di dollari, oltre undici volte il patrimonio netto. Dunque, ben di più della volta e mezza che Warren Buffet definisce il limite oltre cui un qualunque titolo non va acquistato. In Germania, come già successo con il dieselgate scoperto due anni fa negli Stati Uniti, la politica e i sindacati si stanno chiudendo a riccio intorno all’industria dell’auto, scossa dall’accusa di un accordo di cartello fra i tre costruttori impegnati, fin dai primi anni Novanta, a collaborare violando le regole antimonopolio. Il loro coordinamento – ultraorganizzato e semiocculto, con 200 dirigenti e tecnici impegnati in 60 gruppi di lavoro – avrebbe riguardato le tecnologie (emissioni dei motori diesel inclusi, la trasmissione e i freni), i rapporti con i fornitori e le strategie.

Nell’industria dell’auto il punto di rottura, che definisce un prima e un dopo, è rappresentato dalle alimentazioni alternative. L’elettrico è Totem negli Stati Uniti e Tabù in Europa. Negli Stati Uniti, dove il perno della mutazione del reale è rappresentato dalla dialettica fra industria e finanza, gli analisti – per esempio quelli di Evecore Isi – suggeriscono alla General Motors di Mary Barra di scorporare le attività innovative (i progetti sull’auto elettrica e i servizi di nuova mobilità) da quelle tradizionali, così da attirare investitori e fondi specializzati in high-tech. Così è successo con l’interesse del fondo cinese di private equity Gsr Capital per la società di Nissan che si occupa della produzione delle batterie ricaricabili per le auto elettriche. Di tanto in tanto, tornano ad accendere le fantasie le voci di un takeover di General Motors su Tesla. La quale, peraltro, è un fenomeno industriale vero, con il nuovo modello della Gigafactory in Nevada (per le batterie al litio) e con la tradizionale campagna di acquisizione di fornitori strategici, come la Riviera Tool, una azienda di stampaggio di Grand Rapids, nel Michigan.

In Germania, dove invece il perno della mutazione del reale è costituito dalla dinamica fra politica e industria, a definire le condizioni di contesto – o, magari, anche solo a chiarire quali esse siano - è la prima sulla seconda. Non in maniera predominante ed egemonica. Secondo la tradizione della economia sociale di mercato. Ma è la prima sulla seconda. Tanto che, in un contesto disruptive segnato da scandali e omissioni e reso poi ancora più complesso dalle accuse di un cartello anticoncorrenziale, hanno colpito le parole di metà maggio di Angela Merkel, che ha ammesso che – a fronte di un parco circolante tedesco composto da 34mila auto elettriche e da 21mila auto ibride – «non sarà possibile mantenere l’obiettivo di un milione di auto elettriche o ibride entro il 2020».

I costruttori tedeschi sono impegnati non solo a investire molte risorse finanziarie e a sviluppare avanzate e corpose nuove linee di prodotto in versioni elettriche e ibride, ma anche a modificare la loro pesante organizzazione industriale in funzione di una specializzazione produttiva che cambia non poco la fisionomia delle fabbriche e rimodula la distribuzione del valore aggiunto fra assemblatori finali, componentisti e fornitori di tecnologie. Il Governo tedesco ha deciso di puntare 300 milioni di euro sulle colonnine di ricarica elettriche e, da quasi un anno, dà 4mila euro a chi compra una auto elettrica e 3mila euro a chi prende una ibrida plug-in. In tutto, il piano pubblico – fra infrastrutture e incentivi - vale 2 miliardi di euro.

Ma, per ora, in Germania (e in Europa) l’elettrico resta Tabù.

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