Petrolio non significa soltanto Medio Oriente, ma anche Venezuela. La crisi di Caracas è un fattore che probabilmente finora ha influito poco sul prezzo del barile, ma che in realtà ha avuto – e continuerà ad avere – un impatto significativo sul mercato del greggio.La produzione del Paese sudamericano negli ultimi tre anni si è ridotta di oltre 500mila barili al giorno, secondo stime indipendenti impiegate dall’Opec: come se fosse sparito un fornitore del calibro dell’Ecuador. Il mese scorso Caracas ha estratto appena 1,86 milioni di bg, il minimo da trent’anni. La qualità del greggio sta peggiorando. E molto probabilmente non è finita qui: Rystad Energy sostiene che la crisi del debito possa far crollare la produzione venezuelana di altri 800mila bg tra il 2018 e il 2021.«Se davvero il Venezuela precipitasse nel caos e perdessimo il suo petrolio, sarebbe uno shock per il mercato», avverte Daniel Yergin, uno dei maggiori esperti mondiali del settore, vice presidente di Ihs Markit, intervistato da Cnbc.
Stabilimenti a rischio sequestro
Il Paese sudamericano e la sua compagnia petrolifera, Petroleos de Venezuela (Pdvsa), sono ormai ufficialmente insolventi: dopo il declassamento del debito da parte di Standard & Poors’ e Fitch, ieri è arrivata anche la dichiarazione di «credit event» da parte dell’Isda (International Swaps and Derivatives Association), in relazione al ritardo in alcuni pagamenti, che apre la strada al rimborso dei Cds (credit default swaps), strumenti finanziari che funzionano come “polizza” in caso di insolvenza. Non siamo ancora al fallimento totale. E visto che Caracas non ha cessato del tutto i pagamenti nessun creditore ha messo le mani su asset venezuelani. In teoria questo prima o poi potrebbe accadere: le petroliere, con i loro preziosi carichi, rischiano il sequestro, così come la raffineria Citgo negli Usa (che peraltro Pdvsa ha già dato per metà in garanzia a Rosneft, a fronte di un prestito da 1,5 miliardi di $ concesso l’anno scorso).
Il pignoramento dei beni sarebbe il segnale che la tragedia del Venezuela è all’epilogo. Ma prima di allora la situazione potrebbe comunque peggiorare. Rystad sostiene che la crisi del debito abbia provocato «cambiamenti strutturali» nell’industria estrattiva venezuelana, che «hanno ridotto in modo significativo la capacità di produrre petrolio». Il Paese possiede le maggiori riserve al mondo – più ancora dell’Arabia Saudita – e ha sempre fatto gola alle compagnie di tutto il mondo, compresa l’Eni, che tuttora vi opera, sia nell’offshore (dove ha scoperto il maxigiacimento di gas Perla), sia nell’area dell’Orinoco. Ma decenni di sperpero delle risorse pubbliche, prima durante il regime di Chavez e poi con Maduro, una diffusa corruzione e più di recente il crollo dei prezzi del petrolio hanno provocato una crisi drammatica.
Il circolo vizioso tra calo di produzione e aumento dei debiti
L’industria petrolifera secondo Rystad è ora intrappolata in un circolo vizioso: «Man mano che la produzione di petrolio crolla, diminuisce la capacità di onorare i debiti, quindi cresce il rischio di default e il declino della produzione accelera». Pdvsa è indietro nei pagamenti ai fornitori e molte società di servizi petroliferi – compresi colossi come Schlumberger – hanno deciso di interrompere le prestazioni. Il numero di trivelle attive nel Paese si è ridotto ad appena 39, secondo Baker Hughes, il minimo dal 2003. Nel 2016 erano più di 100. «I giacimenti maturi declineranno più in fretta di quanto prevedevamo – commenta Artyom Tchendi Rystad – Per alcuni il tasso di declino potrebbe raggiungere addirittura il 30% nel 2018».
Il Venezuela sta trascurando anche la manutenzione degli impianti, il che ha contribuito a peggiorare la qualità del suo greggio, al punto che molti clienti avrebbero respinto i carichi, nonostante i forti sconti offerti da Pdvsa. La crisi di liquidità, unita alle sanzioni Usa, ha fatto inoltre crollare le importazioni di prodotti indispensabili per diluire il petrolio super-pesante dell’Orinoco, come la nafta o altri greggi di qualità leggera. Caracas, che di solito importava 100mila bg per questo scopo, è scesa intorno a 40mila bg. Da settembre, aggiunge ClipperData, nemmeno un barile ha raggiunto Curacao, isola caraibica in cui Pdvsa “taglia” il greggio: «Si tratta di un’enorme bandiera rossa – avverte il direttore della ricerca Matt Smith – Se quelle importazioni si fermano, allora si fermeranno anche le esportazioni. Questo è il punto di capitolazione».
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