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criptovalute e istituti di credito

Bitcoin tabù per le banche, ma non quando si «nascondono» in altri strumenti

Unicredit non commenta. Intesa Sanpaolo invoca regole più chiare, o almeno regole. I colossi internazionali e le autorità di emissione ne parlano poco e, quando lo fanno, tendono a sconsigliarlo. Il bitcoin resta un tabù per le banche italiane e straniere, allineate sulla cautela quando si parla di una criptovaluta esplosa fino a sfiorare una quotazione di 20mila dollari e una capitalizzazione di mercato di oltre 280 miliardi. Le premessa, tecnica, è che gli istituti bancari non possono investire su una moneta che sfugge a qualsiasi parametro di regolamentazione, perché equivarrebbe a esporre i propri clienti a un prodotto senza garanzie. Ma lo scetticismo ufficiale non ha impedito di entrare nel fenomeno per altre vie, a partire dall’acquisto per conto terzi di strumenti che usano bitcoin e altre criptovalute come sottostante. È il caso di alcuni Etf (exchange traded fund, fondi di investimento che replicano il valore di un indice sottostante) e, più di recente, di futures sbarcati su piazze globali come il Chicago mercantile exchange.

Da Goldman a Morgan Stanley: il bitcoin no, ma il “suo” Etn sì
Già a settembre Jamie Dimon, l’amministratore delegato di JPMorgan, era finito nel mirino di stampa e blog specializzati per la contraddizione fra l’aperta ostilità ai bitcoin («Sono una frode») e gli investimenti del suo istituto su strumenti connessi alla criptovaluta. Grossi gruppi bancari come Goldman Sachs, JPMorgan, Morgan Stanley, Barclays e Credit Suisse Securities compaiono in contemporanea fra i maggiori acquirenti e rivenditori di Bitcoin Xbt, un Etn (exchange traded note, un fondo simile agli Etf, vedi sopra) scambiato sulla sede di Stoccolma del Nasdaq. Il Bitcoin Xbt è denominato in corone svedesi e fa dipendere il suo valore dall’andamento del bitcoin in rapporto al dollaro, la valuta usata come valore di riferimento. Nei giorni scorsi il suo valore è viaggiato intorno alle 700 corone svedesi, oscillando tra picchi superiori alle 800 corone e minimi di 680 dopo il boom della moneta “gemella” Bitcoin cash. Tra gli istituti in prima linea sugli acquisti ci sono Credit Suisse Secruities, Citigroup Global Markets, Deutsche Bank AG, la stessa JPMorgan Securities. Fra le società più attive sul fronte delle vendite emergono invece Morgan Stanley, ancora Credit Suisse Securities e Goldman Sachs.

Quando sono intervenuti sull’argomento, le società hanno offerto la stessa spiegazione: la compravendita dell’Etn sul Nasdaq non equivale a «investire» soldi propri ma a mediare attività dei clienti, oltretutto su uno strumento soggetto alla regolamentazione finanziaria internazionale. Pazienza se il valore di quel fondo dipende proprio dal bitcoin, come nel caso dei futures scambiati a Chicago. Interpellate dal Sole 24 Ore, Goldman Sachs, JPMorgan e Morgan Stanley non hanno fornito commenti diretti.

L’avvocato: altro che bolla, il problema è di regole
Un altro problema che incombe è l’assenza di regole capaci di disciplinare il fenomeno. L’opinione standard è che le valute digitali siano sospese in un «vuoto normativo» perché si propongono come un fenomeno inedito, impossibile da imbrigliare nei vecchi schemi legislativi. Gli addetti ai lavori fanno notare invece che molte delle più di 1.300 criptovalute conteggiate presentano i tratti di prodotti finanziari tradizionali. E dovrebbero essere regolate come tali. «Rischiamo di svegliarci un giorno e scoprire che le criptovalute sono prodotti finanziari come altri, e in quanto tali vanno disciplinati», dice Andrea Conso, avvocato dello studio Annunziata-Conso. Un esempio è quello delle cosiddette Ico, sigla di initial coin offering: un procedimento simile alle Ipo che consente alle criptovalute nascenti di raccogliere fondi per un’iniziativa. Come in una qualsiasi offerta pubblica iniziale, appunto: «Si sta parlando di operazioni strutturate in maniera simile alle Ipo. Ma allora, perché non valgono le stesse regole? - si chiede Conso - Magari, dietro alle criptovalute, ci sono prodotti tradizionali chiamati in altro modo».

Pochi giorni fa Peter Smith, l'amministratore delegato della piattaforma di criptovalute Blockchain (omonima della tecnologia dietro le value digitali), si è spinto a prevedere che «nel 2018 le banche centrali inizieranno a detenere monete digitali nei propri bilanci»: in altre parole, nel giro di un anno istituti come Bce o Bank of England potrebbero accumulare nelle proprie riserve bitcoin o Ether, «la criptovaluta dei contratti smart», a fianco di oro e valute internazionali. Quello di Smith potrebbe suonare come un’ipotesi surreale, ma rientra in un trend definito. L’industria che cambia e si apre alle criptovalute, «quando sono regolamentate». «Mi sembra improbabile, e non ho notizie di banche che abbiano già investito nel concreto - ribatte Conso - Quel che è certo è che la finanza sta cambiando, e anche le regole dovranno cambiare».

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