Petrolio e rame chiudono il 2017 in volata, con prezzi a livelli record. Ma per gli hedge funds che investono sulle materie prime questo è un annus horribilis: per la prima volta dal 2000 il numero dei fondi specializzati nel settore è diminuito. Ne sono nati appena 8 secondo Eurekahedge, contro i 130 che avevano debuttato nel 2011. In compenso si contano decine di fondi in liquidazione, travolti dalle perdite e dai riscatti dei clienti.
Tra quanti hanno gettato la spugna ci sono molti nomi celebri, come Andy Hall di Astenbeck Capital Management, chiamato «Dio» per la capacità (oggi perduta) di spremere performance miracolose dalla speculazione sul petrolio, e Andrew Ward, alias «Chocofingers» o «dita di cioccolato», divenuto miliardario grazie a spericolate scommesse su cacao e caffè, effettuate attraverso il CC+ Fund. Anche quest’ultimo sta chiudendo, aggiungendosi a una lunga lista di fondi sconfitti da un mercato che è cambiato in modo radicale.
Le regole e la vigilanza si sono fatti più rigidi, la volatilità è scomparsa per lunghi periodi, ma soprattutto – come ha ammesso Andy Hall – è cresciuta la competizione da parte dei fondi algoritmici, che seguono logiche imprevedibili e spesso incomprensibili dalla vecchia guardia, che oggi ha deciso di farsi da parte.
«È un cambiamento generazionale. I veterani erano in gran parte i fondatori di questa industria», commenta Joe Marenda, esperto di hedge funds di Cambridge Associates. Questo capitolo della storia si sta chiudendo.
Dio e Chocofingers non sono gli unici a liquidare i propri fondi. Blue Ridge Capital di John Griffin, con oltre 6 miliardi di dollari in gestione, chiuderà dopo oltre vent’anni senza aver recuperato le perdite accumulate dal 2014.
Fine dell’avventura anche per Eton Park Capital Management di Eric Mindich, ex star del trading di Goldman Sachs, per Hutchin Hill Capital di Neil Chriss e per alcuni fondi specializzati della Tudor Investment Corp, di Paul Tudor Jones.
Secondo il Wall Street Journal è prossimo alla liquidazione anche Madava Asset Management, co-fondato da George «Beau» Taylor, trader con una lunghissima carriera, che passa per JpMorgan, Morgan Stanley, Credit Suisse e Taylor Woods Capital. A far precipitare la situazione (come era avvenuto anche con Astenbeck, di Andy Hall) sarebbe stata la decisione di Blackstone di riscattare il denaro dei suoi clienti, dopo che il fondo ha perso il 15% nei primi undici mesi dell’anno.
Nel frattempo stanno sparendo anche fondi gestiti da società che commerciano fisicamente in materie prime: Louis Dreyfus Holding sta smantellando Edesia Asset Management, seguendo le orme di Trafigura, che nel 2015 aveva rinunciato al Galena Metals Fund, e Cargill, che nel 2016 aveva scorporato Black River Asset Management.
Le vecchie leggende del trading di materie prime avevano fondato i loro successi sullo studio dei fondamentali di mercato, spesso “aiutato” dall’accesso a informazioni privilegiate, e su qualità umane come l’intuito, l’acume nell’interpretare i dati, i nervi saldi nell’assumere rischi.
Ma queste capacità oggi servono a poco di fronte alla potenza di software che aggrediscono i mercati con raffiche di ordini, reagendo nel giro di millisecondi alla variazione di soglie tecniche o alla pubblicazione di dati che molto spesso sono del tutto estranei al mondo delle commodities.
L’algotrading, che domina da tempo gli scambi azionari e valutari, ha avuto maggiori difficoltà a penetrare i mercati delle materie prime, utilizzati non solo da soggetti finanziari, ma anche da molti produttori e consumatori. Oggi tuttavia anche in questi listini oltre metà dei volumi di scambio è generata da macchine.
Secondo uno studio pubblicato a marzo dalla Cftc e riferito agli Usa, la quota di automazione sugli scambi di petrolio nel 2014-2016 è salita al 63% (dal 54% del 2012-2014). Per i metalli preziosi si è passati dal 46 al 54%, per i cereali dal 39 al 49%.
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