Lo stop alla joint Tim-Canal plus - nella versione operazione con parti correlate di minore rilevanza - rischia di avere ricadute pesanti nel negoziato tra Vivendi e Mediaset per chiudere il contenzioso su Premium. Ci sono voluti sei mesi per arrivare a definire un accordo tra Tim e Canal plus, che si è arenato sullo scoglio delle contestazioni di sindaci, minoranze e Consob. Difficilmente la procedura - con i criteri imposti per le operazioni con parti correlate di maggiore rilevanza - potrà chiudersi nel giro di un mese. Tocca ora ai soli consiglieri indipendenti di Telecom - di cui cinque indicati da Vivendi e cinque dai fondi - esprimere un parere vincolante sulla bontà e la convenienza dell’iniziativa nel comitato presieduto da Lucia Calvosa, che sulla gestazione del progetto ha assunto, insieme a Francesca Cornelli, una posizione molto critica, messa agli atti in forma di dissenting opionion, mentre anche gli altri tre amministratori dei fondi non si sono mai allineati con la maggioranza del consiglio. I tempi, dunque, sono sfuggiti di mano a Vivendi. Lo stesso direttore generale di Canal Plus, Maxime Saada, a margine di una presentazione, nell’affermare che non ci sono cambiamenti sostanziali nel progetto, ha ammesso che il processo della costituzione della joint venture sta «prendendo un po’ più di tempo» del previsto, senza poter dare indicazioni più precise.
Dunque, difficilmente la questione si risolverà prima del 27 febbraio quando al Tribunale di Milano ci sarà l’udienza, già rinviata una volta, per la causa civile che Mediaset ha intentato contro Vivendi per il mancato rispetto del contratto su Premium. Per Mediaset il piano A è il rispetto del contratto firmato l’8 aprile 2016 che prevedeva il passaggio della pay-tv sotto le insegne francesi e uno scambio azionario reciproco del 3,5% tra i due gruppi, per una valutazione implicita di Premium - all’origine - di 760 milioni. Il piano A-bis è la richiesta di risarcimento per 1,5 miliardi. Il piano B è appunto quello che si stava negoziando e che si sarebbe concluso se non fosse insorto l’intoppo sui tempi. Telecom avrebbe comprato contenuti per 460 milioni in sei anni, da girare poi alla joint con Canal Plus, quest’ultima avrebbe venduto poco meno della metà del suo 40% a Mediaset garantendone, con un’opzione put&call, la possibilità di uscita a prezzi più elevati. In parallelo Mediaset e Fininvest avrebbero rilevato fino al 10% della quota di Vivendi nel Biscione (pari al 28,8% del capitale e al 29,9% dei diritti di voto).
Ora, un piano C chiavi in mano da proporre in alternativa non c’è, salvo che si ragioni su una variante del piano B svincolata dalla joint (tipo “risarcimento” in contanti al posto della put&call). Se si arriverà all’udienza senza un accordo, ci saranno 80 giorni di tempo per lo scambio delle memorie, quindi verrà fissata la successiva udienza per nominare un perito, avviare la fase istruttoria e arrivare a sentenza. Sempre possibile in un processo civile fermare l’iter con una transazione, ma i tempi si allungherebbero inevitabilmente.
Il 18 aprile tra l’altro scade il termine fissato dall’Agcom per risolvere la questione della doppia presenza di Vivendi nel capitale di Telecom e di Mediaset. Vivendi non ha ancora costituito il blind trust a cui conferire la quota nel Biscione in eccesso al 10% consentito, riservandosi di farlo, appunto, entro il 18 aprile. Vivendi considera il trust la “soluzione definitiva”, accompagnata con l’impegno, preso pubblicamente, a non esercitare i diritti di voto sulla quota in eccesso. Impegno che ha avuto un primo riscontro a dicembre, quando i francesi non si sono presentati all’assemblea Mediaset, pur essendosi riservati espressamente di votare nel caso di modifica allo statuto,che è quindi passata blindando il consiglio a favore della maggioranza Fininvest. Tuttavia, se non fosse raggiunto un accordo tra le due parti in lite nemmeno per il 18 aprile, potrebbe riaprirsi un nuovo fronte con l’Agcom che, per ora, si è limitata a prendere atto del piano presentato dalla media company transalpina ribadendo però di volere soluzioni «strutturali» che, tradotto, significherebbe l’alienazione della partecipazione vietata, il 20% di Mediaset.
© RIPRODUZIONE RISERVATA