Non sono tanto le vertiginose vette raggiunte dalle Borse mondiali a preoccupare. Non sono le valutazioni delle azioni a intimorire. Né i record di Wall Street. La vera bolla non sta probabilmente nei mercati finanziari, ma in chi li guida come moderni burattini tecnologici: quegli algoritmi che ormai producono il 66% degli scambi sulle Borse mondiali. Perché gli algoritmi, usati ormai dagli hedge fund più speculativi fino alle prudenti gestioni patrimoniali, pur essendo diversi tra loro usano molto spesso lo stesso parametro per stabilire il rischio di un’asset class: la volatilità. Dunque si muovono come un gregge. Secondo i calcoli di Alberto Gallo di Algebris nel mondo ci sono almeno 2mila miliardi di dollari di attivi gestiti da fondi con strategie dipendenti dalla bassa volatilità. Ma, guardando anche chi usa questo parametro in maniera più indiretta, il conto è probabilmente molto più elevato.
Ora che la volatilità è bassa, e indica basso rischio, tutti si espongono dunque sul mercato azionario per aumentare il livello di asset rischiosi. Sempre di più. Anche a leva. Questo ha l’effetto di far volare le Borse e, come in un circolo virtuoso, di abbassare ulteriormente la volatilità stessa. Si pensi che il Vix (l’indice che la misura sulla Borsa di Wall Street) tra il 1990 e il 2016 era sceso sotto quota 10% solo nove volte, mentre nel 2017 l’ha fatto oltre 50 volte e nel 2018 già sette. Il problema è che se per qualunque ragione la volatilità un giorno dovesse aumentare, gli algoritmi si comporterebbero in maniera opposta: venderebbero azioni. Tutti insieme. Ancora una volta, come un gregge. Questo aumenterebbe la volatlità ulteriormente, facendo partire altre vendite. Come un circolo vizioso. Insomma: la bassissima volatilità, che da sempre viene considerata un indice di fiducia, rischia di essere in realtà un moltiplicatore oggi dei rialzi di Borsa e domani forse dei ribassi. Questa è una preoccupazione che, tra i gestori e gli esperti di mercato, si sta sempre più diffondendo.
Il rally dei listini
La Borsa di Wall Street quasi ogni giorno tocca nuovi record storici, trascinando tutte le Borse mondiali. La corsa è così veloce, che in tanti si chiedono se non sia esagerata. Se non stia gonfiando una bolla. Sul mercato il pensiero prevalente tra i gestori è che non sia così, perché la corsa dei listini è giustificata dalla crescita dell’economia mondiale e dall’aumento degli utili aziendali. Tanto che in molti la chiamano «esuberanza razionale». Calcola Matteo Ramenghi, chief investment officer di Ubs Wealth Management Italia, che la crescita degli utili aziendali sia rimasta sotto il 10% annuo negli anni ’90, 2000 e nel periodo 2010-2015. Nel 2016 è rallentata al 3% circa. Ma nel 2017 (secondo le stime) i profitti aziendali, a livello mondiale, dovrebbero aver registrato un incremento del 15% circa. Molto più della media degli ultimi 30 anni. E, sempre secondo le sue stime, la crescita dovrebbe restare superiore al 10% anche nel 2018 e nel 2019. Insomma: le aziende globali quotate in Borsa macinano grandi profitti e dunque giustificano - a detta della maggioranza dei gestori - il rally delle Borse. Infatti anche il rapporto tra prezzo delle azioni e utili aziendali resta, a livello globale, entro la media storica.
Ma la storia insegna che le bolle non si presentano mai con la stessa faccia. Questa volta potrebbe avere il volto di un algoritmo. «Ormai tutti usano algoritmi per gestire patrimoni - osserva Ramenghi -. E spesso sono impostati per utilizzare la volatilità come parametro di rischio: se è bassa, allora gli algoritmi lo prendono come un segno positivo per aumentare l’esposizione sull’azionario». Tante strategie lo fanno in maniera esplicita. Come i fondi «risk parity», che aumentano o diminuiscono l’esposizione sulle varie asset class in base proprio alla loro rischiosità. Nel mondo ci sono 600 miliardi di dollari gestiti in questo modo, secondo i calcoli di Alberto Gallo di Algebris. Oppure gli short Vix Etf, i Vol selling Funds o i Vol Target Control: quelli che puntano proprio sulla bassa volatilità. E che insieme hanno in gestione oltre 370 miliardi di dollari.
Sovraesposizione e leva
La bassa volatilità, che viene letta come basso rischio, causa però un effetto moltiplicatore: porta infatti tanti investitori a sovraesporsi sui mercati azionari. E ora che quelli obbligazionari tremano per effetto della ritirata delle banche centrali, altri flussi arrivano ancora qui: sulle Borse globali. È per questo che l’esposizione netta sui mercati azionari degli hedge fund - secondo i dati di Bofa Merrill Lynch - ha raggiunto il massimo dal 2006. E i fondi speculativi non sono gli unici: anche altre tipologie di investitori sono molto esposte sulle Borse. Persino le famiglie americane che, secondo i dati della Federal Reserve, hanno investimenti in Borsa su livelli mai toccati dal 2000. In parte questo è dovuto alla bassa volatilità, che fa percepire bassi rischi sull’azionario.
Non solo. La bassa volatilità spinge gli investitori, nella disperata caccia di rendimenti nell’era dei tassi a zero, anche ad aumentare la leva finanziaria. Dunque ad indebitarsi per comprare azioni. «Il rischio - scrivono Ed Fishwick e Jean Boivin di Blackrock - è che la bassa volatilità incentivi la costruzione di posizioni a leva nel cuore del sistema finanziario. Nel 2000 proprio questo comportamento rappresentò il seme della crisi». Non lascia dunque molto sereni notare che oggi le posizioni a leva sulla Borsa di Wall Street sono molto maggiori rispetto al 2000: il cosiddetto «margin debt» (cioè il debito contratto dagli investitori per acquistare azioni) nella Borsa Usa è infatti sui massimi storici, vicino a 600 miliardi di dollari. Anche questo è un moltiplicatore dei rialzi, quando le cose vanno bene, ma un moltiplicatore dei ribassi in caso di vento avverso.
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